Controlli e liti

Ammesso lo scomputo delle ritenute anche senza la certificazione del sostituto

di Antonio Zappi

Il mancato rilascio, da parte del sostituto, del certificato attestante la ritenuta operata non preclude al contribuente di provare in ogni altro modo, ai fini dello scomputo dall’imposta dovuta, che la somma è stata trattenuta per evitare una doppia tassazione. A tali conclusioni è giunta la Suprema Corte, con la sentenza 18910/2018 depositata lo scorso 17 luglio. I massimi giudici, citando sia risalenti che più recenti pronunce, affermano che l’inosservanza dell’obbligo del sostituto d’imposta di inviare tempestivamente la certificazione attestante le ritenute operate non toglie al contribuente sostituito il diritto di provare la reale entità della base imponibile, evitando la duplicazione di un’imposizione già scontata alla fonte (Cassazione 7251/1994 e 3725/1979). Essi, quindi, ribadiscono come «la norma, attualmente vigente, dedicata allo scomputo delle ritenute d’acconto, ne subordina la legittimità alla sola condizione che esse siano state «operate» (articolo 22, Dpr 917/1986), rilevando, quindi, un fatto storico (decurtazione del corrispettivo), che, seppur viene provato tipicamente mediante la certificazione di chi ha operato la ritenuta, può essere provato con mezzi equivalenti da chi la ritenuta ha subìto». Significativo, peraltro, per gli Ermellini che la stessa agenzia delle Eentrate si sia determinata a consentire lo scomputo delle ritenute non certificate, ove il contribuente ne dia prova equivalente al certificato (risoluzione 68/E/2009). L’articolo 36-ter del Dpr 600/1973 «deve essere, quindi, interpretato nel senso che gli uffici finanziari (e a fortiori i giudici tributari) possono apprezzare anche prove diverse dal certificato, ad esso equipollenti» (Cassazione, sentenza 14138/2017). Rimane, tuttavia, aperta un’annosa questione: se è, infatti, confermato che il sostituito, ove riesca a provare che la ritenuta è stata effettuata, può operarne lo scomputo, non è altrettanto pacifico se il debito d’imposta da mancato versamento debba rimanere confinato, o meno, esclusivamente sul sostituto, ovvero senza che l’Erario possa mai ripetere dal sostituito le somme non pagate. Esiste, infatti, giurisprudenza di legittimità che ritiene il sostituito solidalmente responsabile con il sostituto in caso di mancato versamento della ritenuta operata. Secondo la Suprema Corte, il fatto che il sostituto di imposta sia definito ex articolo 64, comma 1 del Dpr 600/1973, come colui che, in forza di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, «non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall’origine obbligato solidale al pagamento dell’imposta, sicché anch’egli è soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l’abbia versata all’Erario» (Cassazione, sentenze 12076/2016, n. 9933/2015 e 14033/2006) e ciò «a prescindere se la ritenuta sia prevista a titolo di imposta o a titolo di acconto» (Cassazione, sentenza 23121/2013). Ove, però, la ritenuta risulti operata, vi è giurisprudenza di merito che sostiene che la responsabilità per il mancato versamento della ritenuta dovrebbe gravare esclusivamente sul sostituto (Ctr Lombardia, sezione XLIX, n. 23/2016; Ctp Sondrio, n. 58/02/2017; Ctr Sicilia n. 2047/25/16).

Cassazione, V sezione civile, sentenza 18910 del 17 luglio 2018

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