Controlli e liti

Appello inammissibile se viene meno l’interesse concreto

di Roberto Bianchi

L’appello presentato dall’amministrazione finanziaria avverso una sentenza di primo grado alla stessa sfavorevole, risulta essere inammissibile allorché la richiesta di riforma della sentenza risulti essere fondamentalmente manchevole di significato.

Nel caso in esame la controversia ha per oggetto un’intimazione di pagamento afferente a una cartella interamente soddisfatta, sebbene nelle more del giudizio, attraverso il pagamento eseguito dal debitore. Dall’inammissibilità dell’appello, di conseguenza, può scaturire la condanna al pagamento delle spese in capo della parte che lo ha proposto e al quale non ha tempestivamente rinunciato. A tale conclusione è giunta la Ctr del Lazio attraverso la sentenza 3885/10/2017, attraverso la quale il giudice laziale ha proclamato inammissibile il ricorso in appello presentato dall’amministrazione finanziaria, condannando inoltre l’ufficio alla corresponsione di ragguardevoli spese di giudizio.

Il contenzioso tributario era stato innescato originariamente dal contribuente, attraverso un ricorso presentato avverso l’agenzia delle Entrate e l’agente della riscossione, nei confronti di un’intimazione di pagamento, a sua volta afferente a una cartella di pagamento emessa per omesso versamento dell’Iva. I giudici di prime cure accoglievano il ricorso in quanto, la commissione di merito aveva individuato un vizio di notifica attribuibile al Concessionario della riscossione. Averso tale sentenza, l’amministrazione finanziaria presentava appello, chiamando in causa sia il contribuente e sia il concessionario per la riscossione. Nel frattempo il debito tributario, originante l’iscrizione a ruolo, risultava essere stato soddisfatto dal debitore attraverso l’integrale pagamento della debenza tributaria avvenuta mediante compensazione.
A fronte di ciò, a parere dei giudici di merito laziali, l’interesse alla pronuncia è venuto a mancare, in quanto afferente a un’intimazione di pagamento il cui debito risultava essere stato definitivamente assolto. Tutto ciò si rivela in contrapposizione alle previsioni contenute nell’articolo 100 del Codice di procedura civile, relativamente alle quali al fine di proporre una domanda o di contestarla, è imprescindibile avere un interesse che deve necessariamente coniugarsi con un beneficio reale e tangibile, e pertanto non puramente teorico, in riferimento a una soluzione giuridica adeguata.
Di conseguenza dall’impugnazione, qualora accolta, la parte deve trarre un vantaggio effettivo e concreto e non un mero interesse astratto a fronte di una più corretta soluzione giuridica, senza tuttavia alcun riflesso pratico (Cassazione, sentenze 11540/2013, 5700/2011, 21257/2009 e 3646/2009).
Il giudice, pertanto, deve accertare se tale interesse sussista o meno nel caso concreto, prescindendo dalle richieste eventualmente difformi delle parti (Cassazione 21 marzo 2008, n. 7697).
L’interesse, a parere dei giudici capitolini, deve essere contingente e perciò deve sussistere sia al momento di proposizione della domanda giudiziale e sia al momento della decisione (Cassazione sentenza 26171/2006).
Considerato che l’amministrazione finanziaria, pur nella consapevolezza dell’avvenuta remissione del debito originario, ha ritenuto opportuno procedere con il giudizio, la Ctr laziale ha affermato l’inammissibilità dell’appello e la conseguente condanna al pagamento delle spese di giudizio a favore del contribuente, chiamato in causa quale parte resistente sino al perfezionamento del giudizio di secondo grado.

Ctr Lazio, sentenza 3885/10/2017

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