Autoriciclaggio, pesa la dissimulazione
Per la contestazione del reato di autoriciclaggio non serve che il bene che proviene dal reato presupposto sia poi utilizzato in un’attività economica lecita. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza 38422 della Seconda sezione penale. La pronuncia accoglie così il ricorso presentato dalla Procura contro la decisione del Tribunale del riesame, che aveva limitato l’applicazione di misure cautelari (limitandole alla sospensione interdittiva dal pubblico ufficio per un anno) nei confronti di un funzionario dell’amministrazione di giustizia che aveva realizzato, secondo l’accusa, una truffa ai danni degli utenti chiedendo un numero di valori bollati superiore al necessario, appropriandosi di quelli in eccesso.
Il Riesame aveva sostenuto, in aderenza peraltro alla tesi del Gip, che la monetizzazione dei valori bollati integrava una condotta di impiego del bene provento del delitto idonea a dissimularne la provenienza illecita, ma, nello stesso tempo, era del tutto indimostrato l’ulteriore requisito della condotta costituito dall’impiego del medesimo bene in un’attività economica lecita.
Una lettura che però la Cassazione non condivide. E lo motiva ricordando che la norma sull’autoriciclaggio colpisce quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni commesse dallo stesso autore del reato presupposto che hanno la caratteristica di essere idonee a ostacolare concretamente la loro provenienza criminale.
La norma, sottolinea la sentenza, nasce dalla necessità di evitare le operazioni di sostituzione da parte dell’autore del reato presupposto, limitando però la rilevanza penale a quei casi che comportano la reimmissione nel circuito economico finanziario o imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita con l’obiettivo, tuttavia, di ottenere un effetto dissimulatorio «che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile)». Semaforo rosso, così, secondo la Cassazione sia per la tesi difensiva secondo la quale la vendita del bene ottenuto con la truffa presupposta sarebbe l’unico modo per acquisire il profitto necessario a integrare il reato, sia per la posizione espressa dal Riesame, secondo la quale sarebbe necessario limitare l’ambito di applicazione dell’autoriciclaggio all’impiego del provento in attività economiche perchè, in caso contrario, potrebbe concretizzarsi una duplicazione sanzionatoria.
Regge invece, almeno sul piano giuridico, perchè poi su quello dei fatti toccherà al Riesame tornare a pronunciarsi, la linea dell’accusa per la quale il profitto della truffa è ottenuto dall’autore del reato con l’impossessamento dei valori bollati, mentre la reimmissione nel mercato dei valori stessi integra quell’elemento aggiuntivo richiesto dall’autoriciclaggio solo se accompagnato dalla dissimulazione sulla provenienza dei beni che rappresenta l’ulteriore disvalore.
Cassazione, sentenza 38422/2018