Bancarotta fraudolenta per l’amministratore che non svaluta il credito inesigibile
La mancata svalutazione in bilancio di un credito inesigibile in caso di successivo fallimento dell’impresa comporta l’imputazione di bancarotta fraudolenta impropria in capo all’amministratore per due ragioni. A livello qualitativo, sotto due profili che entrambi rivelano l’elemento soggettivo del reato commesso dall’amministratore: l’apposizione di una voce falsa nel bilancio per occultare il dissesto che indica la consapevolezza dell’inesigibilità del credito, l’artificioso proseguimento dell’attività d’impresa che amplifica il dissesto aziendale. A livello quantitativo, i principi contabili rilevano ai fini penali in quanto rappresentano criteri tecnici che agevolano la lettura del bilancio. Così la sentenza n. 29885-2017 della Cassazione , quinta sezione penale, (Pres. Zaza, Rel. Scarlini) depositata giovedì scorso.
La vicenda
Un uomo, già amministratore di una società poi dichiarata fallita, viene rinviato a giudizio sia per bancarotta semplice e fraudolenta patrimoniale sia per bancarotta impropria da falso in bilancio. Secondo il pm infatti, non ha svalutato tempestivamente un credito commerciale diventato inesigibile e ha così contribuito, attraverso la successiva falsa rappresentazione in bilancio, ad aggravare lo stato del dissesto dell’impresa, procrastinando oltremodo la richiesta di fallimento.
La difesa e l’accusa
L’uomo si difende. In primo luogo, la condotta contestata, consistente nella mancata svalutazione del credito inesigibile, non integra la bancarotta impropria poiché lo stato di dissesto era già rilevabile in precedenza e dunque, a tutto concedere, la rilevanza penale dei fatti riguarda solo il possibile aggravamento dello stato del dissesto, che è punito quale bancarotta semplice.
Poi il supposto falso valutativo è basato unicamente sull’applicazione dei principi contabili, che non possono, ex se, rilevare ai fini penali.
Ma il pm insiste per la sussistenza del reato. Il curatore ha spiegato che il credito vantato dalla fallita era chiaramente inesigibile già dal 2007 per l’evidente stato di decozione della società cliente. Se la fallita avesse preso atto che siffatto credito era inesigibile avrebbe perso il proprio patrimonio netto ed avrebbe dovuto essere posta immediatamente in liquidazione. L’imputato, quanto all’elemento soggettivo del reato, ha poi agito nella piena consapevolezza della diminuzione della garanzia patrimoniale e dello squilibrio economico che la predetta appostazione in bilancio avrebbe creato.
La decisione
Giudici di merito e giudice di legittimità danno tutti torto all’uomo. In particolare per la Corte di Cassazione:
•L’amministratore che non svaluta il credito del quale conosce la sua inesigibilità è pienamente consapevole di appostare in bilancio una voce falsa procurando così un danno ai creditori. La presenza di un patrimonio netto “negativo” e la mancata ricapitalizzazione ovvero messa in liquidazione dell’impresa, fa emergere l’elemento soggettivo del reato per l’occultamento dapprima del dissesto e poi attraverso le false appostazioni in bilancio per il suo aggravamento conseguente all’artificioso proseguimento dell’attività d’impresa;
•I principi contabili che obbligano l’imprenditore alla svalutazione dei crediti in sofferenza sono rilevanti ai fini penali perché costituiscono criteri tecnici generalmente accettati in grado di agevolare la corretta appostazione e lettura delle voci di bilancio e dai quali è possibile discostarsi solo fornendo nel bilancio stesso adeguata informazione e giustificazione.
Cassazione, V sezione penale, sentenza 29885 del 15 giugno 2017