Adempimenti

Bilancio in rosso per la 231

di Luca Garavoglia

Sono passati 17 anni dall’approvazione del Dlgs 231/2001.

Il famigerato modello è pertanto ormai quasi maggiorenne e, proprio di questi tempi tra un anno, dovrebbe sostenere l’esame di maturità.

Si può dunque tentare un primo bilancio. Che, da semplice operatore e non da giurista, a me pare largamente deficitario. È palese che in materia l’evidenza empirica non può essere conclusiva. È infatti semplicemente impossibile stabilire di quanti reati la legge abbia impedito la commissione. Ciò in quanto anche assumendo (il che è molto discutibile) un’analoga capacità della magistratura lungo tutto il corso del periodo di osservazione di esercitare la (dissennatamente) obbligatoria azione penale, è pacifico che in ambito di reati commessi dai cosiddetti colletti bianchi le diverse fasi del ciclo economico e-assumendo che corruzione e concussione facciano la parte del leone-identità del decisore politico rendono impossibile isolare la singola variabile. Tuttavia, cambiando la prospettiva, mi pare si possa dire che nella fase patologica, ovvero a processo già in corso, siano stati pochi i pubblici ministeri che si sono lasciati impressionare dal modello. E, temo, giustamente.

Del resto la ragione principale per cui la legge non funziona è che la sua ratio zoppicava. Non può infatti sfuggire che il modello fu pensato soprattutto perché, a fronte delle conseguenze potenzialmente deflagranti, anche in termini occupazionali, dell’abbandono del (saggio) brocardo «societas delinquere non potest», occorreva creare una via di fuga. Eppure quel principio aveva un senso, se non altro perché partiva dalla banale constatazione che alla società non può essere applicata la sanzione penale par excellence, ovvero quella coercitiva della libertà personale. Inoltre, il reato in questione è quasi sempre apicale. Secca ammettere che il “non poteva non sapere” di dipietresca memoria, per quanto aberrante in punta di diritto (fece inorridire i giuristi quanto il “che c’azzecca” gli accademici della Crusca), è invece in pratica quasi sempre vero. Non tanto perché il vertice abbia la capacità (e a volte la voglia) di sapere tutto quanto accade nell’ambito di organizzazioni in alcuni casi assai articolate e complesse, ma perché quasi mai l’autore materiale del misfatto si assume la responsabilità di decidere e attuare la condotta senza essersi procurato adeguata copertura «colà dove si puote ciò che si vuole». Il modello ha quindi certamente contribuito al disboscamento amazzonico e ha rimpinguato le casse dei professionisti che vi si sono applicati («l’etica degli affari e l’affare dell’etica» diceva Guido Rossi) ma sulla sua reale utilità pratica i dubbi rimangono. Se a ciò si aggiunge che agli operatori stranieri, in quanto unicum del Belpaese, la legge appare una costruzione astrusa e che una sua applicazione rigorosa e non formale porta alla paralisi di fatto dell’azienda, è lecito pensare che la commissione che esaminerà il maturando dovrebbe essere piuttosto severa con il candidato.

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