Il CommentoDiritto

Composizione negoziata, il rebus dell’accesso

<span id="U402496673809kJI" style=""/>L’introduzione dell’istituto ha fatto emergere problemi interpretativi relativi alle condizioni oggettive di accesso a tale percorso

di Cristina Guelfi

L’introduzione dell’istituto della composizione negoziata della crisi di impresa, operata con il decreto legge 118/2021, attratto poi all’interno del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (e su cui ora interviene il decreto legge Pnrr, con modifiche pensate per migliorarne l’appeal), ha portato alla naturale emersione di alcuni problemi interpretativi relativi alle condizioni oggettive di accesso a tale percorso, alternativo rispetto ai tradizionali strumenti messi a disposizione dalla legge fallimentare, da parte delle imprese che versano in stato di insolvenza o di liquidazione volontaria.

L’accesso alla composizione negoziata è permesso all’imprenditore che si venga a trovare in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e quando risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa.

Il Codice definisce la crisi come lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi e l’insolvenza come lo stato del debitore che si manifesta con l’inadempimento o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Si lega dunque la possibilità di accesso alla composizione negoziata e alle misure protettive alla sussistenza di due condizioni oggettive, lo squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rende probabile la crisi o l’insolvenza e la ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa.

L’interrogativo a cui oggi non è data una risposta univoca è se anche le imprese decotte, ovvero con scarse possibilità di risanamento, possano o meno ricorrere alla composizione negoziata.

Il vuoto normativo su questo profilo ha creato notevoli difficoltà alle imprese che, una volta attivata la procedura di composizione negoziata, hanno avuto incertezze nel capire quali fossero le soglie minime consentite configurabili come indici di crisi probabile.

Si sono così profilate delle soluzioni di carattere pratico di elaborazioni giurisprudenziale non sempre conformi tra loro e a volte di segno opposto rispetto alla chiusura totale nei confronti dell’impresa decotta, a cui sembrerebbe condurre un’interpretazione strettamente letterale della norma.

Tale interpretazione, particolarmente preclusiva dell’accesso alla composizione negoziata, è stata fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito (si veda, ad esempio, Tribunale di Siracusa 14 settembre 2022), secondo cui la locuzione “probabilità di insolvenza” va intesa nel senso di “rischio di una futura insolvenza” e dunque la valutazione della crisi deve essere eseguita in chiave prospettica. Del resto, la ratio dell’istituto sarebbe legata a esigenze di allerta precoce che possono essere soddisfatte solo da un’interpretazione dei presupposti di accesso volta a stimolare la tempestiva individuazione della situazione di crisi.

Altra giurisprudenza di merito ha poi analizzato la criticità (si veda Tribunale di Bologna 8 novembre 2022) delle sole insolvenze sopravvenute nel corso del percorso di composizione negoziata, aspetto non consueto ma comunque di rilievo in quanto l’insostenibilità di una trattativa in sede di negoziazione annullerebbe la procedura di composizione negoziata con la messa in liquidazione dell’impresa. La posizione che i giudici hanno assunto rispetto alle casistiche di insolvenza in pendenza di trattative non ha carattere restrittivo dal momento che il legislatore ha inteso favorire l’ingresso alla composizione negoziata delle imprese già in stato di insolvenza. Infatti, argomentano i giudici, non è stato previsto alcun filtro di ammissibilità all’accesso alla procedura di composizione negoziata e il test di autodiagnosi non richiede la dimostrazione dell’inesistenza di uno stato di insolvenza. L’elaborazione giurisprudenziale si conforma quindi al Codice della crisi ponendo al centro il concetto di risanamento aziendale. Il piano di risanamento prospettato dall’imprenditore potrebbe in ipotesi prevedere la dismissione dell’intero patrimonio della società, ma a condizione che a essa si accompagni una concreta ipotesi di risanamento funzionale alla prosecuzione dell’attività d’impresa. In conclusione, l’interpretazione giurisprudenziale sembrerebbe porsi in linea e confermare lo spirito insito nel Codice della crisi per cui ciò che rileva non è tanto la verifica dello stato di insolvenza quanto la reale possibilità di procedere a u n risanamento dell’impresa.