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Costo fiscale da allineare tra i redditi diversi e quelli di capitale

La questione della doppia nozione di «costo fiscale»

di Marco Piazza

Dopo tanti anni dall’entrata in vigore del Dlgs 461/1997, che ha dato per la prima volta un inquadramento sistematico alla tassazione dei redditi di natura finanziaria, i numerosi successivi interventi del legislatore hanno privato la disciplina di coerenza. Alcune delle basi su cui si fonda l’ordinamento sono divenute anacronistiche.

Ci riferisce in particolare:
1.
alla tassazione delle plusvalenze derivanti dalla dismissione di patrimoni formatisi in lunghi periodi di tempo;
2.
all’indeducibilità delle minusvalenze conseguite al termine della liquidazione della società;
3
. al disallineamento fra la nozione di «costo fiscale» valido ai fini della tassazione dei rediti diversi da quello rilevante per la tassazione dei redditi di capitale;
4
. alla non compensabilità dei redditi di capitale con le minusvalenze, con particolare riferimento ai proventi dei fondi comuni d’investimento, delle polizze di assicurazione sulla vita e a quelli conseguiti in occasione di recesso, esclusione del socio o liquidazione della società.

Vediamo nel dettaglio la questione della doppia nozione di «costo fiscale», mentre gli altri temi saranno affrontati nella guida «Fisco & Risparmio» in edicola martedì 6 dicembre con Il Sole 24 Ore. Il costo fiscale delle attività finanziarie è bene definito ai fini del calcolo dei «redditi diversi» (articolo 68 del Testo unico). Si tratta del costo d’acquisto o di sottoscrizione o del valore indicato in dichiarazione di successione, in caso di beni pervenuti in eredità. Se la successione riguarda attività esenti (ad esempio titoli pubblici, partecipazioni che non concorrono a formare l’asse ereditario per effetto dell’articolo 3, comma 4-bis del testo unico delle successioni) il costo è il valore normale alla data di apertura della successione. Per le attività ricevute in donazione si utilizza il costo fiscale del donante.

Lo stesso accade, secondo una risposta dell’Agenzia, da molti criticata, nel caso delle attività estere se il dante causa era residente all’estero (caso in cui non sono dovute imposte di successione e donazione in Italia per mancanza di territorialità). Da una prassi relativamente recente che si basa sul tenore letterale delle norme, si evince che per le Entrate queste regole non sono valide quando il costo viene utilizzato ai fini della determinazione dei redditi di capitale come, ad esempio, recesso o esclusione del socio o rimborso della quota in sede di liquidazione delle società di capitale o di persone.

Nel caso di quote di fondi comuni d’investimento ricevuti in successione o donazione il problema non si pone perché il reddito maturato fino alla data della successione o donazione viene tassato e quindi diviene costo per l’avente causa, ma nel caso di successione di un fondo estero detenuto da non residente, è probabile che le plusvalenze maturate all’estero siano gravate sia dalle imposte di successione estera sia, in sede di realizzo, dalle imposte sui redditi italiane.