Accordi di ristrutturazione, nella transazione fiscale rischio di soglie troppo alte
Va chiarito se i limiti del 30 e 40% per i creditori pubblici valgono solo per il cram down. Va precisato che il principio dell’accordo rimane la convenienza
L’articolo 25 del “decreto Pa” è destinato a incidere significativamente sul futuro degli accordi di ristrutturazione. Il successo dell’istituto trova una delle sue ragioni nella possibilità di concludere più agevolmente transazioni fiscali e contributive essenziali per la conservazione della continuità aziendale o comunque funzionali a una liquidazione meno penalizzante per i creditori.
In questo scenario - che vede nell’accordo il contenitore elettivo della transazione e in quest’ultima il presupposto della fattibilità del piano sotteso al primo - si sono di recente registrate ipotesi limite nelle quali all’erario è stato imposto il riconoscimento di irrisorie percentuali di soddisfacimento. Si tratta di casi marginali e solo in apparenza deplorevoli, essendo comunque richiesto l’accertamento della “convenienza” dell’accordo (sia dell’attestatore sia del tribunale). Il loro risalto, anche mediatico, ha tuttavia contribuito a determinare l’intervento restrittivo operato con la novella.
La nuova norma limita il ricorso alla transazione fiscale e contributiva ai soli accordi con continuità aziendale, nei quali venga previsto il riconoscimento al creditore pubblico di almeno il «trenta per cento dell’ammontare dei rispettivi crediti, sanzioni e interessi inclusi»; percentuale che sale al quaranta per cento se i crediti degli aderenti all’accordo sono inferiori al quarto della debitoria complessiva.
Non è questa la sede per stigmatizzare una tecnica legislativa costellata da interventi casistici che modificano costantemente la disciplina in un settore che richiederebbe massima chiarezza e prevedibilità, all’interno di una visione sistematica compiuta. Più utile è offrire primi spunti interpretativi e suggerire possibili correttivi in fase di conversione o nel decreto chiamato a riscrivere l’articolo 63 (rispetto al quale le nuove regole hanno carattere dichiaratamente transitorio).
Innanzi tutto va sottolineato che la soppressione del comma 2-bis (e dell’inciso finale del secondo comma che lo richiamava) sembra superare i dubbi in ordine alla possibilità di presentare la domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti prima che siano trascorsi novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, ferma restando la possibilità per l’erario o l’ente previdenziale, al quale andrà notificato il provvedimento di fissazione dell’udienza di omologa, di intervenire in quella sede per esporre le proprie eventuali contestazioni.
L’inedita rilevanza assegnata alla percentuale di adesione volontaria all’accordo dovrebbe peraltro ampliare lo spazio della transazione forzosa anche quando l’adesione dell’erario o dell’ente previdenziale non sia decisiva ai fini del raggiungimento del sessanta per cento, ma comunque essenziale per la fattibilità del piano posto alla base dell'accordo. Una lettura strettamente letterale si esporrebbe a seri dubbi di costituzionalità, finendo per sanzionare irragionevolmente le imprese più virtuose che abbiano accumulato minori percentuali di debiti erariali e previdenziali. Una questione di portata più generale è se i requisiti introdotti dalla novella siano richiesti soltanto ai fini del cram down o valgano a precludere anche l’adesione volontaria a una transazione che erario o enti previdenziali ritengano più conveniente rispetto alla alternativa liquidatoria.
È dunque auspicabile che, in sede di conversione, si chiarisca che la transazione può essere imposta anche quando il credito erariale o contributivo non sia essenziale ai fini del raggiungimento della percentuale minima (ma sia essenziale per la fattibilità del piano).
E che si permetta l’adesione volontaria degli enti quando, in difetto dei presupposti per il cram down, l’accordo prospetti una soluzione comunque più conveniente rispetto alla deriva liquidatoria. Last but non least, si dovrebbe senz’altro espungere il riferimento a sanzioni e interessi, che finisce per innalzare l’asticella a livelli irragionevolmente elevati (in particolare per l’iva).
In una prospettiva di più ampio respiro si potrebbe, da un lato, permettere finalmente la transazione fiscale volontaria anche all’interno della composizione negoziata e, dall’altro, precostituire le condizioni affinché erario ed enti previdenziali siano in grado di operare una valutazione tempestiva e consapevole sulla convenienza della proposta, eventualmente affidando il relativo incarico a professionisti esterni. Un investimento di risorse che andrebbe in definitiva a beneficio degli enti pubblici e del sistema economico nazionale.