Dividendi, onere della prova condiviso
È contraria ai principi comunitari una normativa tributaria nazionale che subordina l'applicazione della direttiva madre-figlia - nelle ipotesi in cui la società madre UE sia controllata direttamente o indirettamente soggetti residenti in Stati terzi – alla condizione che si dimostri che la catena di partecipazioni non abbia come fine principale quello di conseguire un vantaggio fiscale.
E' quanto stabilito dalla Sentenza della Corte di Giustizia UE emessa ieri nella causa C-6/16 (Equim SAS ed Enka SA), che ha analizzato la compatibilità della normativa tributaria francese che ha recepito la Direttiva madre-figlia (Direttiva 90/435/CEE, come modificata dalla Direttiva 2003/123/CE) con il principio della libertà di stabilimento, sancito dai Trattati UE.
La questione riguardava una società figlia francese controllata da una mamma lussemburghese, a sua volta detenuta, per oltre il 99%, da una società svizzera (per il tramite di una società cipriota).
La società francese aveva distribuito dividendi alla mamma lussemburghese applicando l'esenzione da ritenuta alla fonte, in conformità alla Direttiva madre-figlia. Tuttavia, la legislazione francese prevede che l'esenzione non si applichi qualora i dividendi distribuiti vadano a beneficio di una persona giuridica controllata da uno o più soggetti residenti di Stati extra-UE, a meno che non si dimostri che la catena societaria non abbia come fine principale quello di trarre vantaggio dall'esenzione.
Sulla base di tale previsione, l'amministrazione finanziaria francese ha negato l'applicazione del regime di esenzione.
La Corte ha osservato preliminarmente come la direttiva sulle società madri e figlie tende ad assicurare la neutralità fiscale della distribuzione di utili da parte di una società UE alla sua società madre stabilita in altro Stato membro. A tal fine la stessa direttiva sancisce il divieto delle ritenute alle fonte sugli utili distribuiti, impedendo agli Stati membri di istituire unilateralmente provvedimenti restrittivi e subordinare a condizioni tale esenzione. L'unica eccezione riguarda l'applicazione di disposizioni necessarie al fine di evitare le frodi e gli abusi.
A tal fine, una normativa nazionale restrittiva può essere compatibile qualora abbia come scopo specifico quello di ostacolare costruzioni puramente artificiose e prive di effettività economica. Invece, una norma di portata generale che escluda automaticamente talune categorie di contribuenti dall'agevolazione fiscale, senza che il fisco sia tenuto a fornire alcuna prova, eccederebbe quanto necessario per evitare frodi e abusi.
Ciò vale anche nel caso in cui la società madre sia controllata da uno o più soggetti residenti in Stati terzi, in quanto la direttiva non prevede che l'origine degli azionisti delle società UE possa incidere sul diritto di tali società di avvalersi del regime di esenzione. La previsione di una restrizione in tal senso costituisce una limitazione alla libertà di stabilimento, non giustificabile dall'obiettivo di limitare la frode o l'evasione fiscale tramite la pratica del treaty shopping.
Bisognerà ora valutare i riflessi di tale sentenza sulla normativa italiana, che subordina anch'essa l'esenzione – nel caso la mamma sia controllata da soggetto extra-UE - alla dimostrazione che la società madre non detenga le partecipazioni allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame (art. 27-bis, quinto comma, Dpr 600/73). In base alle conclusioni della sentenza, tale onere della prova in capo alla società, senza che il fisco dimostri finalità evasive o abusive nella catena societaria, va considerato incompatibile con i principi UE.
Corte di giustizia Ue, causa C-6/16, sentenza del 7 settembre 2017