Fatture false, l’assenza di strutture non fa prova
Nell’ambito degli accertamenti per fatture soggettivamente inesistenti, la consolidata giurisprudenza nazionale e comunitaria si è espressa nel senso di considerare un duplice onere della prova. In prima battuta, a carico dell’amministrazione finanziaria, corre l’obbligo di dimostrare, anche tramite presunzioni qualificate, che il contribuente «sapeva o avrebbe dovuto sapere» della frode a monte della supply chain. In un secondo momento, e solo nel caso in cui il fisco sia riuscito a provare tale potenziale coinvolgimento, il soggetto è tenuto a dimostrare di aver adempiuto ai «ragionevoli controlli» richiamati dalla Corte Ue, in capo al fornitore che ha perpetrato la frode. Solo in questo modo ha la possibilità di detrarre l’Iva.
In questo contesto, assume rilevanza l’eventuale mancanza di struttura del soggetto che fornisce il contribuente accertato. In molte verifiche fiscali focalizzate su frodi carosello, l’assenza di dipendenti, di un magazzino, di una struttura fisica minima, è considerata di per sé una presunzione qualificata, atta a identificare un coinvolgimento o quantomeno una colpevole ignoranza di chi sta a valle della catena. La criticità di questo approccio, tuttavia, sta nel fatto che spesso questa presunzione viene fatta valere indipendentemente dal contesto in cui si opera.
In altri termini, molto spesso l’equazione applicata dai verificatori è la seguente: se l’accertamento su un soggetto fa emergere l’esistenza di una frode, e quest’ultimo è privo di struttura, scatta una verifica in capo al cliente a valle, con ripresa fiscale dell’Iva detratta, sul presupposto che quest’ultimo non poteva non accorgersi di avere a che fare con una «cartiera». È evidente, tuttavia, che questo approccio è semplicistico ed errato: se così fosse, ogni ditta individuale, broker o freelance, che pure assumano assoluta dignità nel mercato di riferimento, dovrebbero apparire, dal punto di osservazione dei rispettivi clienti, come potenziali «cartiere».
L’approccio corretto deve invece focalizzare l’attenzione sull’adeguatezza della struttura, in funzione dello specifico mercato in cui ci si colloca. Sul punto pare interessante il recente orientamento della Ctr Lombardia, che si è espressa con le sentenze n. 469/2018 e 738/2018. Nel primo caso i giudici milanesi hanno dato ragione al contribuente, annullando la pretesa erariale, in quanto è stata provata «l’esistenza di una struttura/laboratorio (del fornitore) in prossimità della società appellata (cliente), che riforniva il prodotto». Questo laboratorio è stato considerato idoneo in funzione del mercato di riferimento.
Nel secondo caso, viceversa, i giudici hanno ritenuto valide le prove fornite dall’ufficio, in quanto (richiamando la Corte di cassazione, sentenza 24426/2013) il fornitore del soggetto accertato è risultato privo «di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata». Anche in questo caso viene posto l’accento sul fatto che l’insussistenza della struttura assume una connotazione negativa solo laddove non sia coerente con il lavoro che il soggetto è chiamato a svolgere.
Tale approccio, senz’altro positivo, entra nel solco già aperto dalla Ctr di Roma (sentenza 3374/22/16) e dalla Ctr di Bologna (1126/7/16). Nel primo caso, è stata considerata assolutamente normale la presenza, nella catena distributiva di rottami, di un broker, senza alcuna struttura degna di questo nome. Ancora più significativo appare un passaggio della sentenza di Bologna, secondo cui è stata considerata priva di criticità, nella supply chain di vendita automobili, l’esistenza di un broker che «non aveva bisogno di una struttura organizzativa essendogli sufficiente operare con telefono e fax».