FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: accertamento, Iva e Catasto
Stop al redditometro per gli immobili e le azioni pagati all’ex coniuge tramite compensazione con i crediti vantati dal collaboratore dell’impresa familiare. La detrazione per le spese di riqualificazione energetica spetta anche per gli “immobili merce” locati della Srl. Legittimazione attiva, onere probatorio e tempestività, legittimano la controllata italiana al rimborso Iva erroneamente addebitata alla controllante svizzera. Nessun presunzione di onerosità per il finanziamento effettuato alla società da un soggetto “non socio”. Senza scheda carburane le gru ed i muletti usati nel cantiere edile.
Le royalties non sempre scontano i dazi doganali sulle merci importate dalla Svizzera. Basta il richiamo alle microzone per motivare la rettifica catastale. Basta il richiamo alle microzone per motivare la rettifica catastale. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.
Compensabili i crediti vantati per l’attività svolta nell’impresa familiare
L’acquisto dei beni mobili e immobili del marito, avvenuto prima della formalizzazione della separazione, da parte dell’ex coniuge, pagati con la “rinunzia” agli utili relativi al lavoro prestato dalla contribuente all’impresa familiare, cioè tramite compensazione col credito vantato dalla donna nei confronti dell’imprenditore, giustificano l’incremento patrimoniale della contribuente. Pertanto va annullato l’accertamento sintetico emanato dall’Amministrazione nei confronti della donna per non aver la stessa materialmente erogato il denaro per acquistare tali beni ma ritenuto dall’Amministrazione sottratto a tassazione.
È infatti infondata la tesi erariale secondo cui l’accertamento è valido perché:
a) l’incremento del patrimonio conseguito dalla contribuente, così come risulta dai rogiti notarili, non è in linea con i redditi da questa dichiarati;
b) la contribuente non ha dimostrato di vantare crediti nei confronti dell’ex marito per non aver provato di aver prestato attività lavorativa nella di lui impresa familiare poiché non è stato prodotto in giudizio l’atto costitutivo di “impresa familiare”;
c) la contribuente non ha dimostrato di aver finanziato negli anni pregressi l’attività del marito come dichiarato dalla stessa;
d) sono assenti nell’Unico dell’ex marito la quota di partecipazione ai redditi dell’impresa familiare attribuiti all’ex coniuge, così come non sono presenti utili dichiarati della contribuente derivanti dall’attività svolta nell’impresa familiare.
È valida per contro la tesi della contribuente secondo cui:
a) la stessa ha prestato attività lavorativa nella ditta del marito, tant’è che non risulta avere avuto altre fonti di reddito;
b) l’esistenza dell’impresa familiare si evince da scrittura privata autenticata;
c) a causa del fallimento del rapporto coniugale, è logico desumere che, prima di formalizzare la separazione, i coniugi abbiano dovuto regolare tra loro i rapporti economici, e ciò è avvenuto mediante il trasferimento di beni in favore della contribuente che li ha “pagati” rinunziando ai crediti vantati nei confronti dell’ex marito.
Nel caso in esame, due coniugi costituiscono, mediante scrittura privata autenticata, nel dicembre 1982, un’impresa familiare, di cui era titolare il marito il quale che svolgeva l’attività di idraulico. I due decidono, poi, di separarsi, e, prima di farlo, regolarizzano i loro rapporti economici nella seguente maniera: a) stipulano, nel 2004, un primo atto di compravendita attraverso il quale la donna acquista due immobili per oltre 145mila euro; b) stipulano, nel 2005, un secondo atto di compravendita, attraverso il quale la donna diventa proprietaria di azioni per oltre 321mila euro. Tali acquisti vengono pagati dalla donna con la rinuncia ai crediti che la stessa vantava nei confronti dell’impresa familiare per avervi prestato la propria attività come collaboratrice. I due si separavano due anni dopo nel gennaio 2007. L’Amministrazione, viste le dichiarazioni reddituali della contribuente non risultano adeguate per gli anni dal 2002 al 2005 rispetto agli incrementi patrimoniali, la invitava, nel novembre 2009, a fornire chiarimenti in contraddittorio. Seguivano gli accertamenti per gli anni 2002, 2004 e 2005. Ma secondo la donna non c’era stata alcuna erogazione materiale di denaro per entrare in possesso dei beni da cui è scaturita l’attività accertativa. Ella aveva infatti rinunciato ai crediti dalla stessa vantati per l’attività svolta nell’impresa familiare per gli anni successivi al 1982.
• Ctr Sardegna, sentenza n. 87/1/2018
Riqualificazione energetica anche per gli “immobili merce” locati della Srl
La detrazione Ires, relativa alle spese di riqualificazione energetica, spetta anche se i lavori sono stati eseguiti sui cosiddetti “immobili-merce”, ossia immobili oggetto di compravendita e/o locazione, di proprietà della Srl, perché lo scopo dell’agevolazione è quello dell’incentivazione del risparmio energetico ed essa si rivolge a chiunque, compresi i titolari di reddito d’impresa. Pertanto non è necessario che l’immobile appartenga alla categoria dei beni “strumentali” né tanto meno è necessaria la detenzione del bene, essendo lo stesso oggetto di locazione.
Infatti: a) A livello normativo, in base ai commi dal 344 al 347 dell’articolo 1 della Legge 296 del 2006, la detrazione, per spese di riqualificazione energetica, è applicabile anche ai titolari di redditi d’impresa, cosi’ come si evince dall’articolo 2 del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007. E la normativa non attribuisce il beneficio ai lavori eseguiti solo sugli immobili di tipo “strumentali”, dato che lo scopo è quello di favorire il risparmio energetico in senso generale; b) A livello sostanziale, l’agevolazione spetta anche se la contribuente non detiene l’immobile oggetto di riqualificazione per essere stato lo stesso bene locato, tenuto conto che la contribuente ha il possesso del bene.
Va annullata quindi l’iscrizione a ruolo relativa al recupero del credito Ires derivante dall’attività di controllo automatica effettuata dall’Amministrazione ai sensi dell’articolo 36-ter del Dpr 600 del 1973 se la contribuente detiene il bene non per fini “strumentali” ma per scopi prettamente commerciali, dato che l’oggetto sociale della contribuente, seppur secondario, è la compravendita e locazione di immobili.
Nel caso in esame, una Srl esercita, come attività secondaria, la vendita e locazione di immobili. Essa risulta proprietaria di un immobile accatastato come civile abitazione e vi esegue lavori di riqualificazione energetica nel 2012. Tale immobile, poi, viene concesso in locazione. Nel modello Unico 2013, relativo al periodo d’imposta 2012, la contribuente abbatte quanto dovuto per Ires grazie alle spese di riqualificazione sostenute. L’Amministrazione effettua un controllo formale del modello Unico 2013 e ritiene non spettante l’agevolazione da riqualificazione perché l’immobile non è di tipo strumentale e la società non lo ha in detenzione. La contribuente presenta istanza di autotutela, ma l’Amministrazione iscrive a ruolo la maggior Ires. Ma la contribuente, nel ricorso introduttivo depositato nel novembre 2017, ritiene spettante l’agevolazione anche se l’immobile non è di tipo strumentale.
• Ctp Sondrio, sentenza n. 16/1/2018
Due anni per chiedere il rimborso dell’Iva addebitata alla controllante svizzera
La società controllata italiana, che ritiene di aver erroneamente addebitato l’Iva sulle fatture emesse alla società controllante svizzera, non può chiedere a rimborso l’imposta sulla scorta della risposta fornita dall’Amministrazione all’istanza di rimborso precedentemente presentata dalla controllante estera, perché la stessa è priva di legittimazione attiva. Alla contribuente spetta, in ogni caso, l’onere probatorio che tali prestazioni non sono imponibili ai fini Iva. Infine il diniego è legittimo se la domanda di rimborso è stata presentata oltre il termine decadenziale.
Nel caso di specie, una società italiana, controllata da una società svizzera, negli anni dal 2012 al 2014, effettua prestazioni e coordinamento inerente esecuzioni di lavori immobiliari svolti nel territorio italiano, addebita l’Iva che versa poi regolarmente. In seguito ritiene che le operazioni sono state erroneamente assoggettate ad Iva. La controllante svizzera nel 2014 presenta interpello e chiede all’Amministrazione se le prestazioni fatturate dalla controllata italiana fossero da assoggettare ad Iva o meno. L’Amministrazione ritiene inammissibile l’interpello data la semplice interpretazione della normativa di riferimento. In seguito, il 29 settembre 2014, la controllante svizzera presenta istanza di rimborso al Centro Operativo di Pescara. In data 27 maggio 2015 il Centro Operativo rigetta l’istanza per carenza di legittimazione attiva dovendo essere richiesto soltanto dalla società controllata italiana. Quest’ultima, il 13 novembre 2015, presenta istanza di rimborso per 400mila euro di Iva relativi agli anni dal 2012 al 2014, e, decorso il termine del “silenzio-rifiuto” presenta ricorso in Ctp. Ma per l’Amministrazione la risposta fornita dal Centro Operativo alla controllante estera non rileva, manca la prova che le prestazioni rese non andassero assoggettate ad Iva, ed in ogni caso per l’anno 2012 l’istanza risulta tardiva perché presentata oltre il termine biennale previsto dal Codice processuale tributario.
• Ctr Lombardia, sezione staccata Brescia, sentenza n. 2060/23/2018
Il prestito effettuati dai «non soci» può essere infruttifero
La presunzione legale, secondo cui le somme date in prestito alla società sono fruttifere d’interessi, vale solo per i soci della stessa e non per le somme erogate da terzi a beneficio della stessa. In tal caso, difatti, ci si trova di fronte ad una mera presunzione semplice, superabile con qualunque mezzo di prova da parte del contribuente.
Pertanto è illegittimo l’accertamento erariale emesso nei confronti della persona fisica per omessa dichiarazione di redditi di capitale, fondato sulla circostanza che le somme da questi erogate alla società estera, di cui non è socio, siano state date a “mutuo” e quindi siano fruttifere d’interessi. Va infatti rigettata la tesi erariale secondo cui il contribuente ha omesso di dichiarare redditi di capitale derivanti dalle somme erogate a titolo di finanziamento alla società estera, e quindi presunte come fruttifere di interessi. Risulta, invece, fondata la tesi del contribuente, secondo cui: a) La presunzione di fruttuosità delle somme imprestate alla società opera solamente nei confronti dei soci della stessa, come disposto dall’articolo 46 del Tuir e nella fattispecie il ricorrente non risulta tale; b) Secondo la norma di comportamento dell’Aidcec n. 194 del 2016, l’onerosità del mutuo si configura quale presunzione semplice, ed è superabile con qualunque mezzo di prova attestante la diversa volontà delle parti. Nel caso in esame, la non fruttuosità si evince dalle seguenti circostanze: 1) nei bilanci della società estera le somme ricevute sono state iscritte come non fruttifere di interessi, anche in assenza di accordo scritto; 2) il contabile della società estera ha confermato l’assenza di fruttuosità delle somme erogate dal contribuente; 3) dalle causali dei bonifici effettuati non vi è alcun riferimento alla eventuale fruttuosità delle somme erogate; 4) il legale dei contribuenti ha indirizzato alla società estera una lettera in cui attesta che i versamenti erogati non generano interessi.
Nel caso in esame, due fratelli trasferiscono denaro in Bulgaria per 3milioni di euro nel 2010 e 3milioni di euro nel 2011. A seguito di tale trasferimento, i militari della Guardia di Finanza effettuano una verifica e chiedono ai contribuenti le ragioni del trasferimento di tali somme. I due rispondono che si tratta di somme trasferite per la realizzazione di un immobile utile all’esposizione di mobili, i cui lavori sono stati affidati ad una società bulgara. Nel 2010 i due fratelli erogano somme a titolo di caparra alla società incaricata della costruzione dell’immobile. Tuttavia, a seguito delle difficoltà finanziarie della società estera, i due contribuenti nel 2011 effettuano bonifici per 500mila euro dichiarati come fruttiferi di interessi al 7 per cento interessi tuttavia in realtà mai percepiti. Nel gennaio 2016 l’Amministrazione, tramite questionario, chiede giustificazioni circa le somme erogate in prestito dai contribuenti alla società estera. I contribuenti rispondono di non aver mai percepito interessi e di aver erogato il prestito come infruttifero, ma l’Amministrazione ritiene non credibile quanto da essi sostenuto e forma l’accertamento per il 2011 che notifica nel dicembre 2016 nei confronti di uno dei contribuenti, attraverso il quale ricupera maggior imponibile derivante da reddito di capitale non dichiarato di euro 7mila e 500. Il contribuente si oppone e sostiene illegittima la pretesa atteso che non ha mai percepito interessi e che non opera la presunzione di fruttuosità delle somme erogate, circostanza che vale solo per i soci di società. Inoltre l’infruttuosità delle somme si evince da diversi altri elementi fattuali.
• Ctp Varese, sentenza n. 126/2/2018
Senza scheda carburane le gru ed i muletti usati nel cantiere edile
Per l’acquisto del carburante, effettuato da una società edile e destinato a rifornire i mezzi “fissi” utilizzati nei cantieri, è sufficiente la sola fattura e non anche la “scheda carburante, perché trattasi di acquisto non destinato all’“autotrazione” di mezzi. Pertanto è illegittima la ripresa erariale sia sotto il profilo Iva sia sotto il profilo delle imposte dirette per non aver la società documentato tale costo tramite scheda carburante. In particolare, il costo del carburante è ammesso in deduzione, così come è valida la detrazione della relativa Iva, come si evince dalle seguenti circostanze: a) Il carburante non è stato utilizzato per “autotrazione” come previsto dall’articolo 1 del Dpr 444 del 1997, bensì è destinato ai mezzi fissi, quali gru e muletti, utilizzati nei cantieri ove opera la contribuente; b) Tale circostanza risulta documentata dallo stesso Pvc redatto dai militari della Guardia di Finanza in sede di verifica; c) La contribuente ha documentato l’acquisto di carburante tramite fatture rilasciate dai distributori; d) L’attività della impresa edile è quella di movimentazione merce e quindi le spese di carburante sono inerenti l’attività di impresa
Nel caso in esame, i militari della Guardia di Finanza effettuano una verifica nei confronti di una Srl esercente attività edilizia. Nel Pvc risulta che la contribuente, relativamente all’anno 2007, ha acquistato carburante destinato a rifornire i mezzi fissi, quali gru e muletti, utilizzati nei vari cantieri, direttamente dai distributori. Sulla scorta del Pvc, l’Amministrazione ritiene non deducibili componenti negativi per oltre 429mila euro, ed indetraibile l’Iva per oltre 84mila euro. Tali somme vengono ricuperate tramite accertamento notificato nell’agosto 2011 e impugnato dalla contribuente che contesta l’operato dell’Amministrazione poiché il carburante è stato acquistato dai gestori tramite fatture regolarmente esibite ed utilizzato non per autotrazione, per cui non è necessaria la cosiddetta scheda.
• Ctr Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, sentenza n. 1520/7/2018
Le royalties non sempre scontano i dazi doganali sulle merci importate
Il contribuente italiano, definito “licenziatario”, che acquista merci da soggetto extra-Ue, non deve dichiarare il valore della merce comprensivo delle royalties (diritti di licenza), se il pagamento del diritto non è posto come “condizione” per l’acquisto. In tal caso, infatti, non vi sono diritti di licenza che incrementano il valore della merce e, quindi, su tale importo non vanno corrisposti maggiori dazi doganali. In altri termini, le royalties non incrementano il valore della merce importata se è contrattualmente previsto che l’importatore (licenziatario) debba corrisponderle al venditore estero (licenziante) solamente dopo la vendita della merce a sua volta effettuata dall’importatore destinata nel territorio della UE. A livello normativo, in base al Regolamento UE 952/2013 e dell’articolo 71, paragrafo 1, lettera c) del Codice Doganale dell’Unione (CDU), il valore della merce da dichiarare è costituito dal prezzo aumentato dai diritti di licenza nel solo caso in cui sia contrattualmente previsto che il pagamento delle royalties da parte dell’acquirente è imposto quale “condicio sine qua non” per divenire proprietario della merce importata. Viceversa, qualora tale previsione contrattuale manchi del tutto, allora il valore della merce non va aumentato dei diritti di licenza. A livello probatorio, tale assunto si ricava dalla circostanza che nel contratto è previsto che le royalties siano determinate in misura percentuale sulla vendita dei beni oggetto di importazione, e quindi in un momento successivo all’importazione. È pertanto illegittimo il ricupero dei maggiori dazi operato dall’ufficio doganale che ritenga che il valore della merce debba essere aumentato dei diritti di licenza dato che il valore della merce è quello determinato tra le parti, ed i diritti di licenza verranno pagati solamente dopo la loro successiva rivendita ad opera dell’acquirente-importatore.
Nel caso in esame, una Spa italiana importa della merce dalla Svizzera e paga i diritti doganali prendendo a riferimento il prezzo dovuto all’impresa estera. L’Amministrazione Doganale effettua un controllo sul valore della merce importata e rileva che esiste tra le parti un contratto di “sublicense agreement” e quindi ritiene non dichiarato il valore dei diritti di licenza in dogana. Con tre atti di rettifica del 19 luglio 2017, 10 agosto 2017 e 23 agosto 2017, recupera i maggiori dazi doganali e Iva all’importazione rispettivamente per 26,73, 45,24 e 45,24 euro. La contribuente si oppone con ricorso in Ctp e sostiene che i dazi rideterminati non sono dovuti dato che i diritti di licenza saranno corrisposti solamente dopo che la merce sarà stata venduta nel territorio UE, come si evince dal contratto.
• Ctp Como, sentenza n. 54/2/2018
Basta il richiamo alle microzone per motivare la rettifica catastale
È legittimo l’accertamento catastale attraverso il quale l’Agenzia del territorio provvede a rettificare il classamento dell’immobile ricadente in microzona oggetto di revisione, se l’atto riporta i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base della rettifica. In particolare, l’atto è valido se riporta i riferimenti normativi e indica il raffronto con altre unità immobiliari site nella medesima zona, aventi caratteristiche similari, in cui si rileva uno scostamento significativo tra valore di mercato e valore catastale. In particolare, non sussiste il difetto di motivazione, se: a) L’atto contiene le microzone oggetto di classamento, a seguito di richiesta del comune in base a quanto disposto dall’articolo 1, comma 335 della Legge 311 del 2004; b) L’atto indica le unità immobiliari poste come base “comparativa” e ricadenti nella medesima microzona per determinare il maggior valore catastale; c) Risulta che la differenza tra valore medio di mercato e valore catastale è superiore al 35%; d) Non rileva la circostanza che gli immobili di riferimento indicati dall’agenzia abbiano dati catastali diversi, dato che questi rientrano tutti nella medesima zona oggetto di verifica e hanno sostanzialmente analoghe caratteristiche.
Nel caso in esame, il Comune di Roma chiede all’Agenzia del territorio di revisionare il valore catastale delle unità immobiliari site in una determinata zona. Sulla scorta di tale segnalazione, l’ente rettifica il classamento dell’unità immobiliare di proprietà di un contribuente, censita originariamente in A/10, con classe 2, con rendita di 4.464,71 euro, portandolo a Categoria A/10, classe 6, e rendita 8206,70, risultando il valore di mercato superiore a quello catastale.
• Ctr Lazio, sentenza n. 2603/8/2018