Controlli e liti

FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: Aire, Iva, catasto e registro

di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro

Da sola l’iscrizione all’Aire non basta per considerarsi fiscalmente residenti all’estero. Cartella “informatica” valida solo se sottoscritta digitalmente. Solo la corretta procedura di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario salva l’erede dalla solidarietà. Dazi ed Iva all’importazione anche per i rifiuti importati dalla Svizzera. Per la revisione catastale basta il mero richiamo dei presupposti normativi e amministrativi. Il Ctu non paga il registro sulle somme liquidate dal Tribunale a suo favore. Il disconoscimento del credito d’imposta passa con l’atto di recupero anziché con l’iscrizione diretta a ruolo. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

La sola iscrizione all’Aire non basta per essere fiscalmente residenti all’estero

Va considerato residente in Italia il contribuente che ha nel territorio nazionale il centro dei propri interessi economici e/o personali e non basta la semplice iscrizione all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) al fine di essere considerato fiscalmente residente all’estero perché tale dato è solamente di natura “formale” e non “sostanziale”. È quindi valida la tesi dell’Amministrazione secondo cui, dal punto di vista normativo, la semplice iscrizione all’Aire non basta ad escludere a priori la “residenza fiscale” in Italia del contribuente. Questo perché occorre fare riferimento al secondo comma dell’articolo 2 del Dpr 917 del 1986 (Tuir) secondo cui vanno considerati residenti in Italia il contribuente che ha nel territorio nazionale il centro dei propri interessi economici e delle proprie relazioni personali. Dal punto di vista sostanziale, la residenza “effettiva” si evince dai seguenti elementi di fatto del contribuente: 1) Ha la disponibilità di un immobile in Italia; 2) Soggiorna diverse volte l’anno presso tale immobile e risultano consumi per utenze domestiche (luce, acqua, gas, eccetera); 3) Viene in Italia al fine di incontrare i propri familiari; 4) L’atto tributario, oggetto della presente controversia, è stato consegnato al portiere dello stabile, il quale non ha dichiarato che, nei giorni in cui veniva recapitato tale atto, il contribuente era fuori dal territorio nazionale. Pertanto è legittima la notifica dell’accertamento esecutivo effettuata a mani del portiere dello stabile sito in Italia in cui il contribuente aveva l’ultima residenza, ma che di fatto risulta essere ancora il “centro di interesse” del contribuente, anche se iscritto all’Aire.

Nel caso in esame, un contribuente italiano ha trasferito dal febbraio 2008 la residenza a Londra con conseguente iscrizione all’Aire, e tuttavia torna speso in Italia per trovare i propri familiari. Nel dicembre 2012, l’Amministrazione gli notifica tramite il servizio postale, presso il vecchio indirizzo di residenza, un accertamento esecutivo relativo ad Irpef 2007, ove gli contesta l’omessa presentazione di Unico, e l’atto viene ritirato dal portiere dello stabile, che appone firma sull’avviso di ricevimento. Sulla scorta di tale atto, il Concessionario gli notifica l’intimazione di pagamento. Essa viene impugnata dal contribuente che sostiene l’omessa notifica dell’accertamento essendo iscritto all’Aire dal febbraio 2008.

Ctr Lombardia, sentenza 2019/22/2018


Cartella “informatica” valida solo se sottoscritta digitalmente

Va dichiarata nulla la cartella di pagamento notificata a mezzo posta elettronica certificata con estensione pdf in luogo dell’estensione pdf.p7m, ovvero se non vi è prova che l’atto sia un cosiddetto “documento informatico” che deve essere sottoscritto digitalmente. Nel caso di notifica a mezzo Pec, infatti, l’agente della Riscossione deve rispettare i dettami del Codice amministrazione digitale (Cad) e quindi deve provvedere all’inoltro del documento informatico. La cartella notificata, infatti, deve avere le caratteristiche del documento informatico, del quale deve essere garantita l’integrità, l’immodificabilità e la paternità del documento, così come previsto dall’articolo 21 del Dlgs 82 del 2005 (Cad: Codice amministrazione digitale). E tali requisiti sussistono solo con la sottoscrizione digitale. Pertanto la semplice estensione pdf non garantisce che si tratti di un documento originale informatico dell’atto se ad esso non è associato la firma digitale, ma solamente una copia elettronica priva di alcun valore giuridico.

Nel caso in esame, l’Amministrazione forma un’iscrizione a ruolo nei confronti di una società in liquidazione relativa ad Irpef ed Iva per l’anno 2013. Trasmette il ruolo al Concessionario della Riscossione, che lo notifica tramite cartella a mezzo Pec. Tale atto reca l’estensione “pdf”. La società ricorre nel giugno 2016 e contesta la validità dell’atto per assenza della firma digitale, in particolare per non aver l’atto l’estensione “pdf.p7m”. Ma per il Concessionario la cartella è regolare e comunque la proposizione del ricorso introduttivo ha sanato eventuali vizi di notifica.

Ctp Catania, sentenza 968/14/2018


L’accettazione con beneficio d’inventario salva l’erede dalla solidarietà

Non può esserci nessuna iscrizione a ruolo nei confronti dell’erede per i debiti del contribuente deceduto se questi ha accettato con beneficio d’inventario l’eredità e poi ha rilasciato i beni ereditati (cosidetta “massa attiva”) a favore dei creditori. Infatti il rispetto di tutte le formalità previste dalla procedura di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, vale a dire la ripartizione degli stessi in favore dei creditori, l’assenza di beni da distribuire tra gli eredi, precludono all’Amministrazione la possibilità di pretendere le somme a ruolo nei confronti di questi ultimi. È infatti infondata la tesi erariale, secondo cui l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario non basta ad escludere la formazione del ruolo nei confronti dell’erede per esplicare la stessa effetti solamente nella fase esecutiva e non sulla “legittimazione” (passiva). È di contro valida la tesi del contribuente-erede, il quale: a) Ha accettato l’eredità con beneficio d’inventario ai sensi degli articoli 484 e seguenti del Codice Civile; 2) Ha comunicato, tramite Notaio delegato, ai creditori (tra i quali Amministrazione ed Agente della Riscossione), le dichiarazioni di credito previste dagli articoli 498 e seguenti del Codice Civile; 3) Ha rinunziato ai beni del de cuius in favore dei creditori ai sensi dell’articolo 507 del Codice Civile; 4) Ha provveduto, tramite Curatore nominato dal Tribunale, a vendere all’asta i beni, ed il ricavato è finito all’Agente della riscossione; 5) Il Tribunale ha decretato la chiusura della procedura per esaurimento dell’attivo, dove è emerso che non vi erano più beni da distribuire agli eredi.

Nel caso in esame, un contribuente, debitore nei confronti dell’Amministrazione, decede. La figlia erede accetta l’eredità con beneficio di inventario con atto del febbraio 2000, ed affida la pratica a due Notai che procedono a redigere l’inventario dei beni e dei debiti del de cuius. I professionisti, tramite raccomandata, invitano i creditori del de cuius, tra cui Agenzia delle Entrate ed Agente della Riscossione, a presentare le dichiarazioni di credito previste dalla normativa civilistica. Interviene il Concessionario della Riscossione, con atto del febbraio 2011, che dichiara di insediarsi nell’eredità per oltre 16milioni e 656mila euro. Con atto del marzo 2011 gli eredi, tra cui la figlia, rilasciano i beni del de cuius in favore dei creditori ed il Tribunale, con provvedimento dell’aprile 201, nomina un curatore per l’eredità giacente, il quale vende all’asta i beni del de cuius e provvede a corrispondere al Concessionario la cifra di oltre 207mila euro. L’Agenzia delle entrate, sulla scorta dei debiti del de cuius, iscrive a ruolo oltre 553mila euro, di cui 285mila euro per imposte nei confronti degli eredi responsabili in solido, tra cui la figlia. La contribuente contesta l’illegittimità della pretesa fiscale per avere accettato l’eredità con beneficio d’inventario. A seguito del rigetto del ricorso introduttivo, con sentenza del 2015, la figlia promuove appello nel giugno 2016. Nel frattempo, nel marzo 2017, il Tribunale provvede a chiudere la procedura dell’eredità per mancanza di attivo, e tale decreto veniva depositato nel giudizio d’appello con nota deposito del febbraio 2018.

Ctr Lombardia, sentenza 2036/5/2018


Dazi ed Iva all’importazione anche per i rifiuti importati dalla Svizzera

La società, esercente attività di raccolta raccolta/smaltimento rifiuti per committenti residente nel paese extra Ue, deve dichiarare in dogana il valore della “merce” e pagare sia i dazi che l’Iva all’importazione. Questo perché non si è in presenza di beni soggetti a distruzione, ma di “merce” (rappresentata appunto dai rifiuti) importata e causa del rapporto commerciale e contrattuale fra società e contraente extra Ue. È infondata la tesi della contribuente secondo cui andrebbe applicato l’articolo 124 del Regolamento UE 952 del 2013, secondo cui, in caso di importazione di merce soggetta a distruzione totale ovvero alla perdita della stessa per causa di forza maggiore, la stessa non va assoggettata a dazi e Iva doganale. Va invece confermata la tesi dell’Agenzia delle Dogane, secondo cui il rapporto commerciale tra società e contraente extra-Ue ha ad oggetto proprio la raccolta e lo smaltimento di rifiuti, e quindi il rifiuto è qualificabile come merce importata, da dichiarare in Dogana con tanto di assoggettamento a dazi ed Iva all’importazione. Per determinarne il valore, poi, è corretto il richiamo all’articolo 30, secondo paragrafo, lettera d), del Regolamento Cee, prendendo a riferimento il valore determinato dai listini della Cciaa per i materiali importati, e sommandovi diritti doganali e Iva.

Nel caso in esame, una Srl, esercente attività di recupero/smaltimento rifiuti, effettua attività di raccolta per conto di committenti residenti in Svizzera, ed introduce nel territorio nazionale i rifiuti raccolti. In sede doganale la società dichiara non dovuti dazi e Iva all’importazione data la particolarità della “merce” introdotta che non è destinata a commercializzazione ma a distruzione. Ma i funzionari doganali redigono Pvc e rilevano che non è stato quantificato il valore della merce importata pari ad euro 6,70 a tonnellata. Sulla scorta del Pvc, l’Agenzia delle dogane per il periodo dall’agosto 2014 al febbraio 2016, ritiene dovuta iva all’importazione pari a oltre 118mila euro, che ricupera tramite accertamenti concernenti maggiore Iva e sanzioni notificati nel luglio 2017.

Ctp Varese, sentenza 110/4/2018


Revisione catastale, basta il richiamo delle norme e dei criteri adottati

È valida la motivazione dell’accertamento catastale attraverso il quale l’Agenzia del territorio ridetermina il valore dell’immobile ricadente nella cosiddetta “microzona” oggetto di revisione di valore, al fine di rimuovere le differenze divenute significative tra valore di mercato e valore originario, se l’atto riporta i riferimenti normativi, le modalità e i criteri adottati su cui si basa la rivalutazione degli immobili, e il numero della delibera comunale da cui ha avuto input l’attività di revisione.
In diritto, la motivazione dell’atto va ritenuta congrua e sufficiente se questo contiene:

a) La normativa di riferimento, ossia l’articolo 1, comma 335, della Legge 311 del 2004, secondo cui l’Agenzia del Territorio può effettuare una revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti in una determinata “microzona” se il valore di mercato degli immobili risulta significativamente superiore all’originario valore catastale;

b) La determinazione del Direttore dell’agenzia del territorio emanata di concerto con la Conferenza Stato-Città coi quali sono definiti i criteri e le modalità operative di valutazione;

c) La deliberazione comunale attraverso la quale è stato chiesto all’Ufficio del territorio di effettuare revisione.

Nel merito:

a) Nella zona transita un elevato flusso di persone;

2) Essa è stata oggetto di numerosi interventi di riqualificazione edilizia e di migliorie urbane;

3) Ci sono numerosi locali di ritrovo, quali ristoranti, bar ed esercizi pubblici, di forte richiamo attrattivo;

4) Si è riscontrato un evidente aumento della redditività immobiliare, le quali originariamente erano qualificate come abitazioni popolari o ultrapopolari;

5) L’Agenzia del Territorio si è avvalsa dei valori di mercato risultanti dell’Omi (“Osservatorio mercato immobiliare”), ed ha effettuato una comparazione con immobili aventi condizioni similari. Né tanto meno il contribuente ha fornito elementi di prova tesi a dimostrare che il proprio immobile ha caratteristiche tali da sottrarlo alla revisione di classamento catastale.

Nel caso di specie, il Comune di Roma delibera nel 2010 di procedere alla revisione del valore degli immobili siti in una determinata microzona e richiede alla competente Agenzia del Territorio di provvedervi. Sulla scorta di tale richiesta, essa statuisce i criteri e le modalità operative attraverso le quali procedere alla revisione. Nel febbraio 2005 viene a tal fine emanata una determina del Direttore dell’Agenzia del Territorio d’intesa con la Conferenza Stato-città. L’analisi della microzona ha portato ad una rivalutazione del valore degli immobili, dato che il valore di mercato degli stessi è superiore per oltre il 35% al valore catastale degli stessi. Successivamente l’Agenzia del Territorio notifica ad un contribuente, avente immobile sito in detta zona, un accertamento catastale. All’immobile, originariamente censito al catasto in categoria A/2 (“abitazione tipo civile”), classe 2, viene attribuita sempre la medesima categoria ma con classe 4, e nuova rendita rideterminata in oltre mille e 200 euro. Il contribuente contesta il difetto di motivazione della revisione catastale

Ctr Lazio, sentenza 2586/16/2018


Il Ctu non paga il registro sulle somme liquidate dal Tribunale a suo favore

Il contribuente, che ha assunto la qualifica di Ctu (Consulente tecnico d’ufficio) in un procedimento di accertamento tecnico-preventivo, ed al quale il Tribunale ha riconosciuto somme poste a carico di una sola delle parti della controversia, non è tenuto al pagamento dell’imposta di registro qualora si sia costituito nel giudizio di opposizione promosso dalla parte soccombente avverso il decreto di liquidazione. Questo perché il presupposto per il pagamento dell’imposta di registro non può essere determinato dalla veste di “parte” che il Ctu ha assunto nel giudizio di opposizione avverso il decreto di liquidazione delle somme, perché lui risulta essere estraneo al rapporto sostanziale, che coinvolge solamente le parti del giudizio civile. Ciò trova conferma sia nell’articolo 57 del Dpr 131 del 1986 sia nella circolare dell’Agenzia delle Entrate numero 82 del 2013. Infatti il Ctu ha chiesto solamente la conferma del decreto opposto ed è rimasto estraneo al rapporto sostanziale da cui è scaturita la controversia civile, anche perché il credito da lui vantano non è stato messo in discussione, ed ha avuto solamente un interesse “indiretto”. Pertanto è illegittimo l’avviso di liquidazione attraverso il quale l’Amministrazione ritiene dovuta dal Ctu l’imposta di registro per aver in lui ravvisato la veste di parte nel contenzioso proposto contro il decreto di liquidazione.

Nel caso in esame, un contribuente svolge attività di Ctu in una controversia civile, ove la parte soccombente viene condannata a corrispondergli le somme liquidiate dal giudice. Al decreto di liquidazione delle somme si oppone la parte soccombente in quanto ritiene che le somme siano dovute da entrambe le parti partecipanti al giudizio civile. Ma il contribuente Ctu non ci sta e si costituisce nella causa promossa dalla parte civile soccombente. Con ordinanza del 2014 il tribunale accoglie l’opposizione e ritiene che le somme liquidate al Ctu siano dovute in solido da entrambe le parti. L’Amministrazione ritiene allora dovuta l’imposta di registro riguardante l’ordinanza e richiede al Ctu la relativa imposta siccome parte costituitasi nell’opposizione promossa dal soccombente avverso decreto di liquidazione. L’atto, notificato nel gennaio 2017, è oggetto di ricorso dal CTU, secondo il quale lui non ha assunto la veste di “parte sostanziale” nel processo.

Ctp Como, sentenza 38/3/2018


Il disconoscimento del credito d’imposta deve essere notificato

L’Amministrazione non può avvalersi della procedura “automatizzata” con conseguente iscrizione a ruolo qualora intenda contestare e quindi recuperare un credito d’imposta, se prima non notifica avviso di ricupero del credito. Infatti non si è in presenza di un controllo meramente cartolare della dichiarazione fiscale presentata dal contribuente, bensì di una fattispecie che implica valutazione di diritto e di merito. Erra infatti l’Amministrazione che ritiene di essere di fronte ad un caso di controllo meramente cartolare, ossia di correzioni dei dati forniti dal contribuente stesso in dichiarazione. Per contro risulta fondata la tesi del contribuente secondo cui va infatti applicato l’articolo 1, comma 421, della Legge 311 del 2004, secondo cui il credito può essere contestato tramite apposito atto di recupero.
Nel caso in esame, l’Amministrazione disconosce ad una Sas un credito d’imposta del 2005 ed iscrive a ruolo Iva ed Irap per oltre 499mila euro che notifica tramite cartella nell’ottobre. Ma secondo la società l’iscrizione a ruolo non è stata preceduta dall’atto di recupero del credito d’imposta.

Ctr Sicilia, sezione staccata Caltanissetta, sentenza 1513/7/2018

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