Controlli e liti

FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: confisca, risarcimento e imposta unica sulle scommesse

di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro

Solo su presunzioni non è reddito diverso lo spaccio di cocaina . La “parziale” confisca dei beni non estingue per confusione il debito erariale. Amministrazione di sostengo, la valutazione dell’immobile effettuata dal giudice tutelare non rileva per il giudice tributario. L’imposta unica sulle scommesse non è tributo “europeo” ma “nazionale” senza obbligo del contraddittorio preventivo. Non finisce in dichiarazione l’accordo transattivo per danno d’immagine all’amministratore delegato . Esigenze pubbliche di bilancio possono posticipare l’utilizzo del credito d’imposta degli investimenti in aree svantaggiate. Reddito per trasparenza, l’annullamento dell’atto societario travolge quello del socio unico della Srl. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

Solo su presunzioni non è reddito diverso lo spaccio di cocaina

È illegittimo l’avviso tramite cui l’Amministrazione accerta il maggior reddito “diverso” derivante dalla vendita di sostanze stupefacenti (nel caso di specie, cocaina) se l’atto è basato su presunzioni non sufficienti a supportare la pretesa. Non valgono, infatti, a reggere la pretesa tributaria, le seguenti presunzioni: a) Tre dichiarazioni rese dai “clienti” del contribuente alla polizia giudiziaria, in cui essi dichiarano di aver acquistato le sostanze stupefacenti dal contribuente anche se per un quantitativo irrisorio, perché trattasi di episodi isolati; b) Il sequestro di ingenti somme di denaro e di sostanze stupefacenti come risulta dalla sentenza penale di condanna se la stessa riguarda la condotta illecita relativa al periodo d’imposta successivo, perché tale sentenza penale di condanna richiama circostanze relative a condotte illecite commesse nel periodo d’imposta successivo non necessariamente ricollegabile all’anno in questione.

Nel caso di specie, un contribuente spaccia cocaina e viene sottoposto a procedimento penale che sfocia ad una condanna limitatamente all’anno 2012. Nel novembre 2012 gli vengono infatti sequestrati oltre 1200 grammi di cocaina, oltre 107mila euro nonché 7mila franchi svizzeri in contati. A seguito del sequestro viene condannato con sentenza penale emessa nell’aprile 2013. Sulla scorta dei dati della Guardia di Finanza, l’Amministrazione accerta per l’anno 2011 maggior reddito per oltre 900mila euro ritenuti tutti conseguiti in tale esercizio, sulla scorta anche delle dichiarazioni dei clienti rese alla polizia giudiziaria, e gli notifica l’accertamento nel 2016.

Ctp Como, sentenza n. 23/1/18


La “parziale” confisca dei beni non estingue per confusione il debito erariale

In caso di confisca “parziale” dei beni del contribuente non si realizza l’estinzione dei debiti erariali, il cui presupposto si è realizzato prima della confisca, per l’istituto civilistico della confusione. È errata la tesi del contribuente secondo cui i crediti erariali si estinguono per confusione con i beni confiscati, in applicazione del comma 2 dell’articolo 50 del Dlgs 159/2011. È invece valida la tesi dell’Amministrazione, secondo cui l’estinzione per confusione non può trovare applicazione, atteso che:

• dal punto di vista sostanziale, la confisca dei beni è solo parziale, e quindi l’obbligazione tributaria permane in capo al debitore, il quale ha disponibilità di altri beni e resta “titolare” del debito tributario;

• dal punto di vista temporale, non può esserci estinzione per confusione dei debiti a ruolo il cui presupposto d’imposta si sia realizzato nel periodo precedente al sequestro, subentrando lo Stato nella titolarità dei beni solamente dopo il provvedimento di confisca. In ogni caso, molti beni sono stati confiscati per reati di natura ambientale e, quindi, non possono essere “utilizzati” per compensare debiti erariali aventi diversa natura.

Nel caso di specie, la sezione autonome misure di prevenzione del tribunale, nel novembre 2014, confisca i beni per reati ambientali nei confronti di un contribuente, poi deceduto. Tale provvedimento si rende definitivo nel febbraio 2016, ma solamente in misura parziale, e quindi parte dei beni vengono dissequestrati. L’uomo aveva ricevuto in precedenza avvisi di accertamento relativi ad Irpef per gli anni 2004 al 2006, accertamenti impugnati, ma respinti dalla Ctp. Tale sentenza veniva appellata dagli eredi, ma il ricorso in appello veniva respinto dalla Ctr con sentenza del febbraio 2015. Sulla scorta di tale sentenza l’amministrazione iscrive a ruolo a titolo definitivo gli importi della Ctr. Gli eredi impugnano il ruolo, e chiedono la sospensione concessa con ordinanza del maggio 2016 ma poi revocata a seguito del rigetto del ricorso con sentenza del settembre 2016. Il concessionario, a seguito della revoca e sulla scorta della sentenza della Ctr, notifica un ruolo relativo ad interessi per oltre 16mila euro notificato nel giugno 2017. Esso viene però impugnato dagli eredi, i quali sostengono che la pretesa è infondata siccome molti beni sono stati confiscati, e quindi il debito deve considerarsi estinto per confusione.

Ctp Sondrio, sentenza 10/02/2018

La giurisdizione tributaria è distinta ed autonoma dalle altre giurisdizioni

Il giudice tributario ha pieni ed autonomi poteri nel valutare la congruità, ai fini dell’imposta di registro, del prezzo di acquisto di un complesso immobiliare composto da diversi appartamenti, successivamente venduti ad un prezzo molto più elevato, e non è influenzato dalla valutazione, decisamente più bassa, effettuata dal giudice tutelare. Questo perché la giurisdizione tributaria è distinta ed autonoma dalle altre giurisdizioni e persegue finalità differenti. In particolare, le principali differenze, nell’attribuire il valore all’immobile oggetto di compravendita, possono essere così riassunte:

a) il giudice tutelare:

• sul piano teleologico, protegge gli interessi della persona debole: ad esempio, nel caso in cui il proprietario di un immobile sia soggetto che ha necessità di vendere il bene per far fronte alle spese di assistenza domiciliare di cui necessita, il giudice può autorizzare la vendita del bene ad un prezzo più basso;

• sul piano probatorio, dispone di un numero di elementi sicuramente inferiori rispetto al giudice tributario;

b) il giudice tributario:

• sul piano teleologico, deve valutare se il prezzo di compravendita sia congruo ai fini fiscali; • sul piano probatorio, ha a disposizione numerosi elementi quali il prezzo di vendita dell’immobile, il valore di mercato, il valore determinato in base ai “moltiplicatori catastali”, eccetera.

Tuttavia, la circostanza che l’acquirente abbia poi rivenduto singolarmente gli appartamenti ad un prezzo molto superiore rispetto a quello di acquisto, non giustifica da sé il maggior valore accertato dall’ufficio, il quale deve essere ridotto dal giudice tributario, se risulta che: • la compravendita del complesso immobiliare è stata attuata “in blocco”: in pratica, per analogia, la vendita può essere paragonata ad una vendita “all’ingrosso”, e quindi il valore di ogni appartamento è più basso rispetto a quello determinato in caso di vendita singola di ogni appartamento, ossia ad una “vendita al dettaglio”;
• la parte acquirente ha sostenuto spese per “ristrutturare” gli appartamenti acquistati, nonché spese per mediazione: tali elementi hanno incrementato il valore del prezzo di vendita finale dei singoli appartamenti;
• l’amministrazione non ha tenuto conto della “diversa” condizione della parte venditrice, che aveva necessità di monetizzare e quindi di vendere a un prezzo più basso di quello di mercato.

Nel caso di specie, due fratelli, e la madre soggetta ad amministrazione di sostegno, sono comproprietari in pari quote di due complessi immobiliari composti da un totale di sette appartamenti, che decidono di vendere ad una società immobiliare in blocco, anche per far fronte alle spese assistenziali di cui necessita la madre. Il giudice tutelare autorizza la vendita per prezzo complessivo di 207mila euro, che si realizza nel novembre 2014. In seguito la società ristruttura i beni sostenendo spese per oltre 111mila euro e rivende separatamente i singoli appartamenti per totale di oltre 709mila euro a distanza di tre mesi dall’acquisto. Sulla scorta di tale differenza, l’amministrazione rettifica il valore della compravendita in blocco in oltre 597mila euro e recupera maggiore imposta di registro, sanzioni e interessi per oltre 72mila euro tramite avviso notificato alla società e alle parti venditrici. Esse si oppongono alla pretesa, sostenendo che il valore non poteva essere modificato né dall’amministrazione né dal giudice tributario, in quanto autorizzato dal giudice tutelare.

Ctp Treviso, sentenza 122/1/18


L’imposta unica sulle scommesse è tributo nazionale

L’imposta unica sulle scommesse è disciplinata esclusivamente dalla legislazione nazionale, atteso che, a livello Comunitario, manca un’armonizzazione normativa. Ne consegue che tale imposta non è qualificabile come “tributo armonizzato” e l’Agenzia delle Dogane non deve avviare il cosiddetto contraddittorio preventivo col contribuente prima di notificargli l’accertamento.
In dettaglio:
a) A livello normativo:
• l’imposta unica sulle scommesse è dovuta anche se l’attività di raccolta di gioco, svolta anche a distanza, è eseguita in assenza di autorizzazione, in base all’interpretazione autentica dell’articolo 1 della Dlgs 504/98 offerta dal comma 66, dell’articolo 1 della legge 220/2010;
• inoltre, questi è tenuto al pagamento dell’imposta anche se svolge attività di raccolta per conto di un soggetto terzo, anche se ubicato all’estero, con cui è solidalmente responsabile. b) A livello procedurale, l’accertamento è legittimo dato che:
• non sussiste alcuna violazione del contraddittorio preventivo in quanto l’imposta unica sulle scommesse non ha una disciplina armonizzata a livello europeo, per cui la stessa non è qualificabile come “tributo armonizzato”;
•né tanto meno sussiste l’obbligo di partecipazione del contribuente alla formazione del procedimento tributario, dato l’espresso divieto previsto dall’articolo 13 della Legge 241 del 1990.
Nel caso di specie, l’agenzia delle Dogane accerta, in via induttiva, il mancato versamento dell’imposta unica sulle scommesse raccolte in Italia da un contribuente italiano che opera per conto di due società a responsabilità limitata con sede a Malta, e notifica l’accertamento, sia al contribuente italiano sia alle società maltesi ritenute solidalmente responsabili. Con tale accertamento essa ricupera imposta per oltre 32mila euro relativa agli esercizi dal 2011 al 2014, oltre sanzioni per mancata denunzia di inizio attività, accertamento impugnato sia dal contribuente italiano che da una delle due società maltesi.

Ctr Lombardia, sentenza 764/1/18


Non si tassa il risarcimento all’Ad per cessazione anticipata del rapporto

Le somme, corrisposte in favore dell’ex amministratore e in via transattiva per l’anticipata cessazione del rapporto di lavoro, non sono soggette a tassazione se queste sono state erogate a titolo di risarcimento del cosiddetto danno d’immagine. Esse pertanto non sono qualificabili come ristoro per “perdite di redditi della stessa natura”, che invece vanno assoggettate a tassazione e quindi spetta il diritto al rimborso dell’Irpef trattenute dal datore di lavoro ovvero versata dal percipiente in sede di dichiarazione.
In dettaglio: a) E’ errata la tesi dell’Amministrazione, secondo cui la somma erogata è soggetta a tassazione Irpef in quanto tesa risarcire la mancata percezione di redditi della stessa natura, come previsto dall’articolo 6 del Tuir; b) E’ valida la tesi del contribuente, secondo cui la somma risarcisce il c. d. “danno d’immagine”, come si evince dalle seguenti circostanze: 1) Il contribuente, prima dell’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro, aveva ricevuto altre offerte di lavoro, nelle quali avrebbe dovuto assumere un ruolo di prestigio; 2) La conclusione improvvisa del rapporto di lavoro ha sicuramente condizionato la percezione che altre aziende, potenziali datrici di lavoro, potrebbero avere nei confronti del contribuente.
Infine non rileva: a) La circostanza che la società erogatrice abbia comunque effettuato la ritenuta d’acconto, atteso che era comunque precipuo interesse della stessa cautelarsi nei confronti dell’Amministrazione; b) La circostanza che il percipiente non si sia opposto data all’effettuazione di tale ritenuta, vista comunque la possibilità di una successiva disamina della propria posizione fiscale.
Nel caso di specie, una società comunica senza giusta causa la risoluzione del rapporto di lavoro al proprio amministratore. Segue un accordo transattivo, nel quale la società eroga nel 2013 all’uomo 200mila euro a titolo di risarcimento per “danno d’immagine”, su cui opera la ritenuta Irpef del venti per cento. Il contribuente dichiara la somma percepita nella propria dichiarazione fiscale e versa la maggiore Irpef dovuta a saldo. Successivamente presenta istanza di rimborso per oltre 54mila euro, respinta dall’erario ma impugnata dal contribuente.

Ctr Lombardia, sentenza 886/21/18

Il credito d’imposta degli investimenti in aree svantaggiate vuole il nulla osta

L’utilizzo del credito d’imposta per le aree svantaggiate non può essere utilizzato nell’esercizio in cui sono realizzati gli investimenti, se i fondi disponibili relativi a tale esercizio non sono sufficienti. Ne consegue che è legittima l’iscrizione a ruolo tramite la quale viene ricuperata il credito d’imposta del contribuente qualora lo stesso lo abbia utilizzato nell’esercizio in cui ha effettuato l’investimento, ma non ha ricevuto il cosiddetto “nulla osta” dell’Amministrazione.
In particolare: a) È vero che il contribuente ha rispettato l’iter disposto dalla normativa di riferimento, ed ha realizzato l’investimento previsto (articoli 1, commi da 271 a 279 della Legge 296 del 2006); b) Tuttavia, il credito è utilizzabile solamente quando l’Amministrazione abbia controllato che per l’anno di presentazione vi siano disponibilità da bilancio pubblico sufficienti, ed abbia comunicato telematicamente il cosiddetto “nulla osta” come previsto dal secondo comma dell’articolo 2 del Dl 97/2008; altrimenti il credito, pur non essendo in discussione, non potrà essere utilizzato nell’esercizio in corso, bensì nei successivi.
Né tanto meno rileva la circostanza che l’investimento sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma che ha introdotto la copertura finanziaria come presupposto per l’utilizzazione del credito (comma 2 dell’articolo 2 del Dl 97/2008). Questo perché la norma tutela interessi di finanza pubblica, e ha efficacia retroattiva.
Nel caso di specie, una Srl realizza un investimento in una cosiddetta “area svantaggiata” e presenta istanza per ottenere credito d’imposta previsto dalla legge 296/2006, quantificato in oltre 67mila euro. L’amministrazione ammette la contribuente ad usufruire del credito che potrà utilizzare solamente a partire dal 2013, data la mancata copertura finanziaria. La società però utilizza credito nel 2010, credito che l’amministrazione ricupera tramite iscrizione a ruolo notificato nel 2014.

Ctr Lazio, sentenza 461/9/18


L’annullamento dell’atto societario si estende a quello del socio unico della Srl

Il maggior reddito attribuito al socio di Srl a “ristretta base sociale” viene meno qualora l’atto emanato nei confronti della società sia poi stato annullato. Questo perché l’accertamento emanato in capo alla società è l’unico “elemento presupposto” attraverso cui viene attribuito il maggior reddito in capo al socio, ed il suo annullamento ad opera del giudice tributario a seguito dell’impugnazione promossa dalla società, fa venire meno anche quello emesso nei confronti del socio. In altri termini, il reddito di partecipazione del socio di Srl è legato da un nesso di consequenzialità col reddito della società, e quindi, quando il reddito della società viene rideterminato ovvero annullato, le risultanze di tale “rideterminazione” hanno effetto anche sul reddito del socio.
Nel caso di specie, l’Amministrazione considera indeducibili i costi in capo ad una Srl partecipata al 99 per cento da un unico socio. La società si oppone e presenta ricorso in Ctp. L’Amministrazione, sulla scorta di tale accertamento, sostiene che siano stati distribuiti utili “in nero” ai soci e attribuisce al socio maggioritario maggior reddito per oltre 500mila euro relativo all’anno 2007. Il contribuente si oppone alla pretesa e sostiene illegittimo il ricupero atteso che l’avviso emesso nei confronti della società, posto a base dell’accertamento emesso nei suoi confronti, era stato annullato dalla Ctp con sentenza del 2014, decisione poi confermata dalla Ctr nel 2017 a seguito dell’appello promosso dall’Amministrazione.

Ctr Sicilia, sezione staccata Caltanissetta, sentenza 520/7/18

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