Controlli e liti

FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: doppia ritenuta, spese cautelari, Tarsu

di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro

La Direttiva Ue 2003/48/CE legittima il rimborso dell’euro-ritenuta trattenuta sulle disponibilità estere detenute in Svizzera. La compensazione delle spese processuali nel giudizio di merito non salva da quelle della previa fase cautelare. Due posizioni opposte in Lombardia in merito alla definizione agevolata per il debitore non in regola con l’intero piano di rateazione precedentemente accordato. Non è deducibile per la società la polizza “vita” a copertura del rischio morte dell'amministratore “uomo-chiave”. Errore dichiarativo opponibile solo contro le imposte pretese e non per il diritto al rimborso. L’oggettiva inutilizzabilità dell’immobile esonera dal pagamento Tarsu. No alla congiunta impugnazione dell’ingiunzione e dell’atto Tarsu allegato anche se si rischia la definitività della pretesa tributaria. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

L’egittima la richiesta di rimborso della ritenuta estera subita

In base alla Direttiva Ue contro le doppie imposizioni, va riconosciuto il diritto al rimborso dell’euro-ritenuta subita dal contribuente che ha disponibilità finanziarie estere anche se non le ha originariamente indicate nella dichiarazione. Infatti tali attività non possono essere definite come redditi esteri concorrenti a formare reddito complessivo poiché ciò vale solamente per redditi provenienti da paesi che non hanno stipulato, col paese del contribuente, la convenzione contro le doppie imposizioni. Poi il contribuente ha ”sanato” la propria posizione tramite invio della dichiarazione integrativa “a sfavore” ed ha rideterminato e pagato le imposte tramite l’istituto del ravvedimento operoso, senza tener conto della ritenuta estera.
Nello specifico - anche se per le annualità oggetto di “adesione”, tramite la procedura di collaborazione volontaria, il ricorso va dichiarato inammissibile per non essere state le somme pagate essere oggetto di contestazione come disposto dall’articolo 2 del Dlgs 218 del 1997 – va tuttavia riconosciuto il diritto al rimborso come si evince dalla seguente ricostruzione della normativa e della prassi di riferimento:
• va applicato l’articolo 14 della Direttiva Ue 2003/48/CE – rubricato «Eliminazione delle doppie imposizioni» – il quale, al comma due, prevede che, qualora il pagamento di reddito di capitale estero in favore del beneficiario effettivo sia oggetto di ritenuta nello Stato estero, deve essere riconosciuto dallo Stato membro del beneficiario un credito d’imposta e pari alla ritenuta effettuata secondo la legislazione nazionale. E se tale ritenute supera l’imposta dovuta in base alla legislazione dello Stato del beneficiario, questa deve essere rimborsata.
•Non si applica l’articolo 165 del Tuir, il quale prevede che se, alla formazione del reddito complessivo, concorrono redditi esteri, le imposte ivi pagate sono ammesse in detrazione, ma solamente se queste sono indicate nell’apposito Quadro RW, poiché:

a) la ritenuta estera subita deve considerarsi come imposta sul reddito estero a titolo definitivo che non concorre alla formazione del reddito complessivo;

b) l’articolo 10 del Dlgs 84 del 2005, norma di attuazione della Direttiva 2003/48/CE, chiaramente dispone che, nel caso in cui non sia applicabile l’articolo 165 Tuir, il beneficiario effettivo ha diritto al rimborso della ritenuta estera subita;

c) la definizione di reddito estero, come previsto dalla stessa Agenzia con la circolare 9/E del marzo 2015, si rende applicabile solamente nei casi in cui non ci sia una convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stato estero, mentre ciò non vale quando tra la Comunità Europea e Stato estero vi è accordo che statuisce misure equivalenti alla Direttiva 2003/48/CE;

d) in ogni caso, il contribuente ha presentato la dichiarazione integrativa “a sfavore” e, quindi, ha sanato la propria omissione e pagato il quantum dovuto tramite ravvedimento operoso, il cui limite temporale è stato ampliato anche alle fasi in cui siano già in essere controlli fiscali, circostanza questa prevista dalla stessa Agenzia al punto 3.4 della circolare 9/E del 2015.

Nel caso di specie, una contribuente presenta nell’ottobre 2015 istanza di collaborazione volontaria per redditi finanziari relativi agli anni 2010-2015 detenuti presso una banca svizzera e paga l’imposta richiesta dall’agenzia delle Entrate con riferimento alle annualità dal 2010 al 2013. In seguito presenta dichiarazione integrative per le annualità 2014-2015 e versa il quantum rideterminato tramite ravvedimento operoso. Dato che sulle somme detenute all’estero la banca ha operato una ritenuta di oltre 163mila euro, la contribuente presenta istanza di rimborso nel dicembre 2016, che viene rigettata dall’Amministrazione e viene impugnata dalla contribuente. L’Amministrazione resiste e sostiene l’illegittimità del rimborso sia perché, per le annualità 2010-2013, la contribuente ha aderito in adesione, sia perché, per le annualità 2014-2015, originariamente i redditi esteri sono stati omessi.

Ctp Como, sentenza 33/3/18


Spese cautelari dovute se il giudice di merito non dispone diversamente

Il contribuente deve pagare le spese di lite relative alla fase cautelare (in cui, in pratica, il giudice non ha ravvisato la coesistenza del fumus e del periculum) anche se, poi, nella fase di merito, il ricorso introduttivo è stato accolto. Questo perché il provvedimento sulle spese relative alla fase cautelare conserva la propria efficacia anche dopo la definizione del giudizio, salvo che il giudice nella sentenza disponga diversamente, ossia le ritenga non più dovute. Nello specifico, l’articolo 15 del Codice processuale tributario, dispone che le spese relative alla fase cautelare, ossia quelle relative alla fase in cui il contribuente richieda la sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato ai sensi dell’articolo 47 del Dlgs 546 del 1992, siano liquidate dalla Ctp con apposita ordinanza, e tale pronuncia conserva efficacia anche dopo la sentenza di merito. Sempre secondo l’articolo 15, è solamente un’espressa statuizione ad opera del giudice nella sentenza merito può di fatto ritenere non più dovute le spese liquidate nella fase cautelare. Pertanto è legittima la relativa iscrizione a ruolo e la derivata conseguente cartella di pagamento riportante le spese di giustizia liquidate nella fase cautelare, se il giudice con la sentenza di merito non ha disposto diversamente. Viceversa, va rigettata la tesi del contribuente, risultato poi vittorioso nel giudizio di merito, che ritiene le spese di lite della fase cautelare non risultino più avendo la sentenza di merito previsto la compensazione delle spese, con implicata “estensione” anche alla fase cautelare.
Nel caso di specie, tre ricorrenti, in un giudizio tributario, presentano istanza di sospensione dell’atto impositivo. La Ctp ritiene non fondata l’istanza e la rigetta condannandoli alle spese di giustizia con ordinanza del maggio 2016. I contribuenti risultano, però, vittoriosi nella fase di merito, con sentenza emessa nel luglio 2016, ove il giudice dispone la compensazione delle spese. L’Amministrazione iscrive, però, a ruolo, le spese di lite liquidate nella fase cautelare, notificato tramite cartella nel 2017.

Ctp Cremona, sentenza 52/02/2018


La definizione agevolata in presenza di precedenti rate non in regole

Secondo la Ctp Varese, favorevole all’Amministrazione, il contribuente, che ha in essere una dilazione dei debiti a ruolo, può accedere alla “rottamazione dei ruoli” solo se è in regola con l’intero piano di rateazione sino al 31 dicembre 2016, ancorché abbia pagato le rate scadenti nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, ma non le precedenti. Questo perché l’agevolazione va letta in combinato disposto con la normativa della rateazione dei debiti a ruolo, in base alla quale, in caso di mancato pagamento di rate già scadute, il pagamento delle rate successive deve essere attribuito a queste. Da una parte, infatti, ai sensi dell’articolo 6, comma 8, del Dl 193 del 2016, è ammesso al beneficio anche il contribuente che ha pagato, anche parzialmente, i debiti a ruolo a seguito delle dilazioni rilasciate dal Concessionario per la riscossione. Ma dall’altra, per contro, secondo l’articolo 31, comma 2 del Dpr 602 del 1973, se il contribuente è già debitore di rate del piano di dilazione scadute, il pagamento successivo non può essere attribuito alle rate non scadute, salvo l’eventuale eccedenza di versamento. In altri termini, anche se il contribuente ha versato le rate dei mesi ottobre, novembre e dicembre 2016, le stesse vanno imputate alle rate pregresse scadute e non pagate. Pertanto, il contribuente non risulta essere in regola con il pagamento del piano relativo dell’ultimo trimestre e quindi non può accedere alla rottamazione.
Nel caso di specie, secondo la Ctp Varese, una società a responsabilità limitata ha in essere un piano di dilazione co il Concessionario per debiti erariali, e precisamente Ires e Iva relativi all’anno 2012. Alcune rate non sono state versate ovvero sono versate con ritardo fino a novanta giorni rispetto alla scadenza originaria. Intende aderire alla rottamazione dei ruoli e presenta la relativa istanza nel 2017, che viene però rigettata perché le rate pagate nell’ultimo trimestre vanno imputate a quelle già scadute ma non versate ovvero versate in ritardo dal contribuente.

Secondo la Ctp Como, per contro, favorevole al contribuente, l'articolo 6 del Decreto Legge 193 del 2016 va inteso nel senso di ammettere all'agevolazione i contribuenti che hanno in essere dilazioni anche se non hanno pagato tutte le rate, purché siano in regola col pagamento delle rate di ottobre, novembre e dicembre 2016.

Ctp Varese, sentenza 65/3/18
Ctp Como, sentenza 25/1/18

La società non deduce la polizza vita dell’amministratore “uomo-chiave”

La polizza vita, pagata dalla società a copertura del rischio morte dell’amministratore ritenuto “uomo chiave” per la gestione degli affari sociali, non è deducibile anche se la stessa è la stessa società a risultare beneficiaria della polizza perché il decesso non si collega in maniera “diretta” con l’attività d’impresa, ben potendo la società qualificare l’importo come “immobilizzazione finanziaria”. E’ errata la tesi della società a mente della quale la polizza è pagata per fronteggiare il rischio di future perdite a seguito del venir meno dell’amministratore, siccome ritenuto uomo chiave della società. E non rileva la circostanza che la società sia beneficiaria della somma che incasserà in futuro e sarà trattata come “sopravvenienza attiva”. E’ riconosciuta valida invece la tesi dell’Amministrazione secondo cui la somma pagata non è deducibile dato che manca un rapporto diretto tra l’evento morte e l’attività d’impresa, evento che, tra altro, può avvenire anche a carica già cessata. Tale somma futura, visto che la società è beneficiaria della polizza, potrà essere indicata in bilancio come “immobilizzazione finanziaria”. Di contro, invece, sono deducibili le spese assicurative sostenute per responsabilità civile dell’amministratore, sindaci e dirigenti, in quanto sicuramente inerenti l’attività d’impresa, atteso che tali spese sono sostenute per coprire il rischio di eventuali perdite che potrebbero generarsi, dato il coinvolgimento, seppur indiretto, della società.
Nel caso di specie, a seguito di un processo verbale di constatazione redatto dai militari della Guardia di Finanza, l’Amministrazione recupera tramite accertamento relativo all’anno 2009, spese per polizze assicurative sostenute da una Spa per copertura del rischio morte dell’amministratore per oltre 59mila euro e spese per polizze assicurative relative a copertura del rischio di responsabilità civile dell’amministratore, dei sindaci e dei dirigenti per oltre 36mila. La contribuente si oppone e sostiene la deducibilità di entrambe le tipologie di assicurazioni siccome ritenute inerenti l’attività d’impresa.

Ctr Lombardia, sentenza 615/1/18


Errore dichiarativo opponibile contro le imposte pretese e non per il rimborso

Il contribuente deve impugnare l’avviso bonario per contrastare la pretesa fiscale anche allegando errori di fatto o di diritto commessi nella redazione della dichiarazione fiscale, emendabile tramite la dichiarazione integrativa a favore, che può inviare anche oltre il termine di un anno decorrente dall’invio della dichiarazione originaria. Ma tale modus operandi non può essere utilizzato dal ricorrente per ottenere il rimborso delle maggiori imposte pagate ovvero trattenute, date le peculiarità proprie del giudizio di rimborso. Per quanto riguarda la procedura:

■ l’avviso bonario è impugnabile innanzi al giudice tributario in quanto atto esplicativo della pretesa impositiva, a prescindere dall’elencazione degli atti impugnabili data dall’articolo 19 del Codice processuale tributario, da interpretarsi in maniera “estensiva”;

■il contribuente può provare l’erroneità della dichiarazione fiscale viziata da errore di fatto o di diritto tramite la dichiarazione integrativa “a favore”, che può inviare anche oltre il termine di un anno dall’invio della dichiarazione originaria; tuttavia, ciò vale solamente nelle ipotesi in cui si contrasti la pretesa fiscale e non per introdurre richieste di rimborso.

Per quanto concerne il rimborso, il contribuente, alternativamente, può:

a) inviare la dichiarazione fiscale “integrativa” entro il termine di un anno decorrente dall’invio della dichiarazione “originaria” ai sensi dell’articolo 2, comma 8-bis del Dpr 322 del 1988;

b) richiedere a rimborso le somme entro il termine di 48 mesi decorrenti dalla data in cui queste sono state trattenute.

Nel caso di specie, una Spa, nel 2009, presenta la dichiarazione fiscale per il 2008 e riporta le ritenute Ires subite sui conti correnti relative agli anni pregressi dal 2004 al 2007 per oltre 145mila euro, non indicate nel precedente modello Unico 2008 relativo al 2007. In seguito, nel febbraio 2012, presenta una dichiarazione “integrativa” a favore relativa al periodo d’imposta 2007 (Unico 2008), in cui riporta le ritenute subite per gli anni 2004-2007, ritenute non riconosciute dall’Amministrazione che emette nel marzo 2012 un avviso di irregolarità tramite cui ricupera maggiore Ires per oltre 82mila euro, sanzioni per oltre 16mila euro e interessi per oltre 7mila euro. La contribuente paga l’importo indicato in avviso bonario, ma ritiene che le ritenute subite debbano essere restituite e, dopo aver presentato istanza di autotutela, presenta una richiesta di rimborso nell’aprile 2013, rigettata nell’ottobre 2016 e impugnata dalla contribuente.

Ctp Treviso, sentenza n. 110/4/18


L’oggettiva inutilizzabilità dell’immobile esonera dal pagamento Tarsu

Va annullato l’avviso Tarsu relativo all’immobile inutilizzabile data la sua oggettiva inidoneità a produrre rifiuti. Dal punto di vista procedurale, il contribuente non può chiedere al giudice tributario di disapplicare la convenzione tramite cui l’ente locale ha affidato ad una società il servizio di riscossione della Tarsu, siccome ritenuta illegittima. Questo perché, ai sensi del comma 5 dell’articolo 7 del diritto processuale tributario, la Commissione può disapplicare un regolamento o un atto illegittimo se questo è contrario alle norme di legge, ma non un atto amministrativo quale la convenzione. In pratica, la nullità della convenzione può essere dichiarata solo dalla giurisdizione amministrativa. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, la Tarsu non è dovuta siccome l’immobile risulta oggettivamente inutilizzabile. Tale è il locale che non può essere abitato senza l’intervento di manutenzione straordinaria, come dimostrato dal ricorrente tramite foto dell’immobile nonché dalla dichiarazione di inizio attività di lavori di ristrutturazione. Diverso è invece il concetto di non utilizzazione di immobile, il quale implica il pagamento Tarsu. Tale è quel locale in cui è assente qualsiasi collegamento alla rete idrica ed elettrica, privo di arredo, e non abitato ma solo per volontà del proprietario.
Nel caso di specie, un contribuente si oppone ad avviso Tarsu emanato da una società di riscossione per conto dell’ente locale relativo all’anno 2011 per oltre 300 euro. Eccepisce l’illegittimità della convenzione e la non debenza del tributo siccome l’immobile è inidoneo a produrre rifiuti siccome non abitabile senza intervento di manutenzione straordinaria, circostanza questa dimostrata sia dalle foto che dalla dichiarazione di inizio attività di lavori di ristrutturazione.

Ctr Lazio, sentenza n. 462/9/18


No alla congiunta impugnazione dell’ingiunzione e dell’atto Tarsu allegato

Vanno annullate le ingiunzioni di pagamento fondate su avvisi di accertamento della Tarsu asseritamente notificati diversi anni prima se il contribuente non li ha mai ricevuti. Né tanto meno il contribuente è obbligato ad impugnare anche l’avviso di accertamento (“atto presupposto”) per invalidare l’ingiunzione di pagamento (“atto derivato”) anche qualora gli avvisi sono allegati alle ingiunzioni. In primo luogo, in base al principio di invalidità derivata, la mancata notifica di un atto presupposto rende invalido l’atto successivo. In secondo luogo, non è necessario che il contribuente debba impugnare anche l’atto presupposto per rendere invalido l’atto successivo, perché il contribuente può limitarsi ad impugnare solo l’ingiunzione di pagamento contestando l’omessa notifica dell’avviso di accertamento, perché l’impugnazione congiunta dell’atto presupposto unitamente all’atto successivo è solamente una mera facoltà e non un obbligo per il ricorrente. Inoltre è errato quanto sostenuto dall’ente locale, secondo cui, l’allegazione dell’avviso unitamente all’ingiunzione di fatto “sani” ogni vizio dell’atto presupposto. Tuttavia, qualora l’avviso presupposto sia stato inviato assieme all’ingiunzione e il contribuente abbia deciso di non impugnarlo, tale atto è da intendersi come definitivo, con possibilità per l’ente di emettere una nuova ingiunzione, entro i termini previsti a pena di decadenza.
Nel caso di specie, l’ente locale, nel gennaio 2015, notifica cinque ingiunzioni di pagamento fondate su avvisi di accertamento Tarsu relativi ai periodi dal 2008 al 2012, emessi nell’ottobre 2013 ed altresì allegati alle ingiunzioni. Il contribuente si oppone e sostiene di non aver mai ricevuto gli avvisi sottostanti, e, quindi, chiede l’annullamento delle sole ingiunzioni. Il Comune resiste sostiene che le ingiunzioni non possono essere annullate siccome assieme ad esse sono stati notificati gli avvisi e che ogni vizio di notifica debba intendersi sanato, nonché l’illegittimità del ricorso introduttivo, perché il contribuente non ha impugnato anche gli atti presupposti.

Ctr Lombardia, sentenza 893/19/18

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