Controlli e liti

Fondi pensione extra Ue ammessi al rimborso

di Davide Settembre

Con una serie di sentenze (le gemelle n. 25691 e n. 25692 depositate il 1° settembre scorso e n. 25963 depositata il 2 settembre scorso) la Corte di cassazione ha stabilito il principio in base al quale il trattamento fiscale discriminatorio dei dividendi percepiti da fondi pensione extra Ue – rispetto a quelli italiani – contrasta con la libertà fondamentale di circolazione dei capitali di cui all’articolo 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).

Nei casi esaminati dai giudici di legittimità nelle due sentenze gemelle n. 25691 e n. 25692, due fondi pensione di diritto statunitense presentavano alcune richieste di rimborso della differenza tra l’imposta versata sui dividendi di fonte italiana e quanto si riteneva essere invece dovuto. L’ufficio respingeva le istanze e ciascuno dei fondi presentava separati ricorsi dinanzi la Ctp, deducendo di avere assolto sui dividendi una ritenuta del 15% (prevista dall’articolo 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Stati Uniti), ma che ciò comportava un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’imposizione sui dividendi prevista per i fondi pensione nazionali, che erano tenuti, in base alla previgente disciplina, a versare l’imposta sostitutiva dell’11% (che dal 2014 è stata elevata al 20%, di fatto eliminando il trattamento discriminatorio) sul risultato maturato netto per ciascun anno.

I giudici di primo e secondo grado davano ragione ai fondi ma l’ufficio ricorreva in Cassazione. I giudici del Palazzaccio hanno respinto i ricorsi presentati dall’ufficio. La Corte ha in primis evidenziato che quanto dedotto dall’ufficio (situazioni dei fondi non comparabili in quanto i regimi di tassazione dei fondi statunitensi e italiani è differente come anche la disciplina dei controlli) non potesse essere fatto valere per giustificare un regime fiscale discriminatorio che è una misura incompatibile con la libertà fondamentale di circolazione dei capitali prevista dall’articolo 63 del Tfue che vieta (tra l’altro) le restrizioni dei pagamenti tra Stati membri e Paesi terzi. Infatti, tale differente regime appare in grado di dissuadere le società residenti in uno Stato terzo dall’effettuare investimenti nell’Unione e potrebbe essere giustificato solo da ragioni di interesse generale ovvero significative differenze oggettive.

I giudici di Cassazione hanno anche ricordato che, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria (si veda la sentenza «Emerging Markets», n. 190/12 del 2014), il trattamento fiscale discriminatorio dei dividendi percepiti da un fondo costituito in uno Stato terzo risulta incompatibile con il diritto dell’Ue a condizione che, come nel caso in esame, tra lo Stato di residenza della società che distribuisce il dividendo e quello del beneficiario sia in vigore una convenzione che consenta alle amministrazioni finanziarie nazionali un adeguato scambio di informazioni (si veda, in particolare, l’articolo 26 della citata Convenzione stipulata tra Italia e Stati Uniti).

Con la sentenza n. 25963, poi, i giudici hanno accolto il ricorso per Cassazione proposto da un fondo statunitense contro la sentenza di secondo grado per le stesse ragioni. In particolare, i giudici, affermando gli stessi principi delle precedenti sentenze gemelle, hanno precisato che l’articolo 27 comma 3, del Dpr n. 600/1973 (che prevede un’imposta sostitutiva dell’11% solo nel caso in cui i dividendi siano percepiti da un fondo Ue o See appartenente alla cosiddetta white list e non anche da fondi extra Ue) contrasta con l’articolo 63 del Tfue laddove non si accerti che le situazioni siano oggettivamente non comparabili.

Le sentenze in commento certamente rappresentano una buona notizia per i fondi extra Ue che avevano contenziosi in corso e potrebbe anche incentivare l’impugnazione di eventuali silenzi rifiuti degli uffici nel termine di prescrizione decennale.

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