I debiti tributari non gravano sul chiamato all’eredità
I chiamati all’eredità non sono tenuti a far fronte ai debiti tributari del defunto poiché l’obbligazione del pagamento dei debiti ereditari grava sugli eredi e cioè su coloro che abbiano accettato l’eredità. Pertanto, grava sul creditore che agisce in giudizio (nel caso di specie: l’amministrazione finanziaria) «l’onere di provare» «l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, qualità che non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita».
È quanto deciso dalla Corte di cassazione nella sentenza del 17 luglio 2018 n. 19030.
L’amministrazione finanziaria aveva notificato alla moglie e alla figlia di un agente di commercio deceduto, due avvisi di accertamento ai fini Iva, Irap e Irpef riferiti all’attività professionale del defunto, ritenendo che esse fossero eredi del contribuente sottoposto a verifica fiscale.
Nell’ambito del giudizio tributario, tuttavia, le congiunte del defunto avevano eccepito di non dover rispondere delle «obbligazioni tributarie del de cuius» poiché non avevano «accettato l’eredità», non essendo all’uopo sufficiente la sola chiamata ereditaria, come sostenuto invece dell’amministrazione finanziaria.
La Cassazione ha risolto la controversia ribadendo che l’«accettazione dell’eredità, espressa o tacita» «rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede» (nel medesimo senso, le sentenze di Cassazione n. 6479/2002, 2849/1992, 1885/1988, 2489/1987, 5105/1985, 4520/1984, 125/1983) cosicché, ove non vi sia stata l’accettazione dell’eredità, non è possibile rivolgersi a chi è solo «delato», vale a dire chi è beneficiario dell’offerta ereditaria, per ottenere il pagamento di debiti tributari maturati dal defunto.
«Delazione» dell’eredità e «accettazione» dell’eredità rappresentano infatti due fasi ben distinte nella complessa vicenda inerente il passaggio di un patrimonio oggetto di successione ereditaria, e ciò in quanto la chiamata all’eredità «che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede» (in questo senso, le sentenze di Cassazione n. 6479/2002, 11634/1991, 1885/1988, 2489/1987, n. 4520/1984, n. 125/1983); qualità che si consegue per effetto dell’accettazione dell’eredità, sia essa espressa o derivante da fatti concludenti (articolo 485 del codice civile).
Questo vale, a maggior ragione, se si considera la posizione di coloro che sono tenuti a pagare le imposte di successione, dovendosi interpretare l’articolo 36 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni (il Dlgs 346/1990) che individua i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta, nel senso che «fino all’accettazione dell’eredità, chi non è in possesso di beni ereditari non deve rispondere dell’imposta e chi ne è possessore non deve risponderne oltre il limite del valore dei beni posseduti» (circolare n. 17 del 15 marzo 1991).
Se sono previste limitazioni con riguardo al pagamento dell’imposta di successione, a maggior ragione non può essere richiesto a colui che è solo “chiamato all’eredità” (qualità pacifica nel caso giudicato nella sentenza in commento) di pagare debiti tributari del defunto. Infine, la posizione del chiamato può essere assimilata a quella di colui che ha rinunziato ad un’eredità (articolo 519 del codice civile), che «non può ritenersi obbligato a rispondere né dei debiti del de cuius né dell’imposta di successione (nemmeno a titolo provvisorio)».
Cassazione, sentenza 19030/2018