Controlli e liti

Indagini Iva, più difese per l’acquirente

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di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

La prova della buona fede si conferma snodo cruciale per gli acquirenti coinvolti in frodi Iva. In presenza di illeciti Iva commessi dai fornitori di beni e servizi, il Fisco contesta al compratore l’indetraibilità dell’imposta nonostante questo sia spesso estraneo alla frode. Infatti, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria e della Corte di cassazione l’acquirente deve provare la propria buona fede cioè a dire l’inconsapevolezza di partecipare agli illeciti altrui.

Nel corso di Telefisco 2018 la Guardia di finanza, rispondendo a uno specifico quesito, ha chiarito che in queste ipotesi, in genere tutte penalmente rilevanti stante la presenza di false fatturazioni, le unità operative del Corpo utilizzeranno i più penetranti poteri di polizia giudiziaria, quali, ad esempio, intercettazioni telefoniche e ambientali, con la conseguenza che dovrebbero emergere maggiori informazioni sulle transazioni e sui soggetti fornendo, così, un quadro probatorio più dettagliato e concludente anche sulla buona fede dell’acquirente.

VEDI IL GRAFICO: Gli indicatori di buona fede

La casistica

Nei più svariati settori merceologici (carni, metalli non ferrosi, materiale plastico, prodotti elettronici, informatici) si può verificare che la fornitura viene materialmente eseguita da un altro soggetto e non da colui che emette poi la fattura (il prestanome), il quale in queste ipotesi è normalmente privo di struttura logistica.

Una volta incassata l’Iva dall’acquirente, il prestanome non la versa all’erario.

Altre volte, soggetti senza titolo chiedono di acquistare beni senza Iva (producendo una dichiarazione di intenti pur non possedendone i requisiti o presentandosi come i referenti di imprese ubicate in paesi Ue). Ancora, soggetti privi dei requisiti vendono beni applicando indebitamente il regime del margine.

In questi casi, una volta scoperto l’illecito, l’agenzia delle Entrate e la Guardia di finanza contestano, in automatico, all’acquirente (o al fornitore nel caso di vendita di beni senza applicazione d’imposta) l’Iva evasa dall’altro soggetto.

Il contribuente, a fronte di questa rettifica, deve provare che nonostante l’impiego della dovuta diligenza sarebbe stato impossibile scoprire la frode (tra le ultime Cassazione 21740/2017).

Viene così richiesta una preliminare attività di controllo del contribuente sulla bontà e correttezza del soggetto con cui opera commercialmente, in esito alla quale può essere dimostrata la buona fede.

Tuttavia - e questo è l’aspetto più delicato - in queste ipotesi l’amministrazione non valuta in sede di controllo la buona fede limitandosi al più a farlo solo una volta emesso l’avviso di accertamento nel corso del procedimento di adesione. Ma in questa sede, purtroppo, la maggior parte dei funzionari fanno sapere che, a prescindere dalle prove che addurrà il contribuente sulla propria buona fede, non possono annullare i rilievi perché verrebbe meno l’intera contestazione.

A nulla rileva, in genere, che della violazione il contribuente non abbia tratto alcun beneficio, anzi a ben vedere, abbia ricevuto anche un danno: ha regolarmente versato l’Iva al suo fornitore, non la può detrarre, e viene anche sanzionato.

La buona fede

Il concetto di buona fede, determinante in queste circostanze, si basa su principi affermati dalla Corte di giustizia intervenuta sul diritto di detrazione in presenza di fatture soggettivamente inesistenti.

Un contribuente, infatti, non può avvalersi delle norme del diritto Ue quando nell’ambito di un’evasione o di un abuso, sapeva o avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. A tal fine, è legittimo pretendere che l’operatore adotti tutte le misure (che gli si possono ragionevolmente chiedere) per assicurarsi che l’operazione non comporti una propria partecipazione all’evasione. Ove non abbia adottato misure, ovvero non sia in grado di provare che secondo l’ordinaria diligenza mai avrebbe potuto individuare l’esistenza di illeciti perpetrati dal proprio fornitore/cliente, la contestazione è ritenuta legittima.

La giurisprudenza

Al di là di talune interpretazioni di qualche giudice di merito favorevoli al contribuente in quanto addossano l’onere probatorio in capo all’ufficio in termini di concreto coinvolgimento dell’acquirente, normalmente, la giurisprudenza di legittimità ritiene che l’onere gravante sull’amministrazione possa essere assolto in via presuntiva con la conseguenza che la sola presenza della violazione commessa a monte dal fornitore/cliente e l’inesistenza di una struttura in capo ad esso, esaurisce di per sé l’onere dell’ufficio.

Sarà così il contribuente a dover provare la propria buona fede (si veda l’articolo a fianco) e a dimostrare che non poteva essere consapevole del coinvolgimento in illeciti commessi da altri.

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