Split payment per altri tre anni, ma senza le società pubbliche
Dal 1° luglio la scissione dei pagamenti dovrebbe tornare alla vecchia configurazione limitata alle operazioni con la Pa
Con il suo exploit inatteso (anche dalle parti del ministero dell’Economia) in chiusura degli Stati generali, l’Iva è tornata prepotentemente a vivere una doppia vita a cavallo fra l’ambizione degli annunci e la realtà delle decisioni operative. E mentre la prima alimenta aspettative crescenti in molte categorie, a partire naturalmente dai commercianti, la seconda si concentra sul via libera in arrivo da Bruxelles alla proroga triennale dello split payment, il meccanismo che trattiene l’Iva alla fonte per le imprese che lavorano con soggetti pubblici.
Al governo la nuova replica del meccanismo in scadenza a fine mese, che ha acceso le proteste delle imprese perché drena liquidità preziosa soprattutto in fasi di crisi, è data per scontata. Ma con una novità. Dal 1° luglio lo split dovrebbe tornare alla sua configurazione originaria, limitata alle operazioni con la Pubblica amministrazione, perdendo la sua estensione a società controllate e ad aziende quotate introdotta dal collegato fiscale alla manovra 2018. Non è un cambiamento di poco conto, perché se confermato impone una revisione drastica dei software gestionali ma soprattutto perché riduce un po’ il raggio d’azione di un sistema che prima o poi dovrà tramontare. Anche perché la prima proroga era stata chiesta per accompagnare il fisco verso l’applicazione piena della fatturazione elettronica, che nel frattempo però è entrata a pieno regime dando una mano importante alle entrate dello Stato.
Nell’attesa, breve, che il nuovo split payment diventi ufficiale, la fuga in avanti del premier Conte sull’Iva ha agitato parecchio le acque nel governo e nella maggioranza. Al punto che ieri lo stesso Conte ha dovuto agire sul freno, spiegando che «il taglio dell’Iva costa», e trasformando l’ipotetica sforbiciata alle aliquote in un «lieve intervento, momentaneo» pensato come «incentivo dolce e gentile per attivare il piano di pagamento digitale». Perché sulla lotta al contante il premier afferma di essere «testardo», anche se la spinta al cashless ha già perso i tre miliardi messi a disposizione per l’anno prossimo dalla legge di bilancio ma assorbiti in fretta dal decreto 34 per finanziare le misure anticrisi.
Nemmeno l’ipotesi di intervenire sull’Iva per favorire i pagamenti digitali del resto è un inedito. Se n’era discusso nel corso della gestazione della legge di bilancio, quando si scontrò con insuperabili ostacoli tecnici. Sempre nella preparazione della manovra al Mef si elaborò più di un’ipotesi di rimodulazione dei panieri, per spostare beni da un’aliquota all’altra. Allora non se ne fece niente perché Via XX Settembre cercava risorse, e fu stoppata dai partiti della maggioranza. Ora l’obiettivo è opposto, ma il problema sono le coperture.
Problema che si incontra, ingigantito, anche sulla via maestra della riduzione delle aliquote, mentre il governo già vede crescere la stima iniziale di 10 miliardi per il prossimo scostamento di bilancio che porterà nuovo deficit una volta chiuso l’assestamento entro fine mese. Perché ogni punto in meno dell’aliquota oggi al 22% costa 4,37 miliardi, mentre nell’aliquota al 10% il costo è di poco meno di tre miliardi a punto. Non va dimenticato poi che l’Iva è di fatto un’imposta comunitaria, serve a finanziare il bilancio Ue ed è soggetta alla vigilanza stretta di Bruxelles. Oggi le regole Ue concedono ai 27 Paesi un’aliquota ordinaria non inferiore al 15%, ma spingersi a quel livello chiederebbe oltre 28 miliardi di euro. Più fattibile, almeno economicamente, l’idea di tagliare l’Iva per i settori più colpiti. Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento delle Finanze spostare dal paniere dell’Iva agevolata del 10% a quello del 5% le attività di alloggio e ristorazione richiederebbe per esempio 729 milioni all’anno. Mentre per le attività di intrattenimento, sportive e di divertimento il costo annuo si aggirerebbe sui 451 milioni. All’appello mancherebbero altri settori come l’automotive e l’abbigliamento, oggi con aliquota al 22%, che farebbero crescere di molto il fabbisogno.