Imposte

L’erogazione a dipendente di società estera è deducibile

Risposta a interpello sul caso di azienda italiana che paga direttamente alla consociata. La somma versata rientra nel reddito della filiale, non imponibile in Italia

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di Maurizio Logozzo e Alessandro Saini

Nel caso di una società italiana che eroga un compenso per l’attività di consigliere di amministrazione a un dipendente di una consociata estera, con corresponsione diretta del compenso alla consociata estera, in presenza di un obbligo contrattuale di riversamento dell’emolumento alla consociata, il compenso non costituisce reddito per il dipendente, mentre per la società italiana è deducibile secondo il criterio generale di competenza. Non risulta inoltre applicabile la ritenuta a titolo d’imposta del 30% prevista dall’articolo 24, comma 1-ter, del Dpr 600/1973 in quanto il compenso rientra nel reddito di impresa della consociata estera, non imponibile nel territorio dello Stato, in assenza di una stabile organizzazione. Questa è la conclusione a cui è giunta l’agenzia delle Entrate, Direzione centrale Piccole e medie imprese, in risposta a un interpello non pubblico.

Il quesito sottoposto all’Agenzia riguarda il caso di un dipendente di una consociata estera che ha svolto l’incarico di consigliere di amministrazione di una società italiana del gruppo. La consociata estera ha stipulato un accordo con il dipendente, in base al quale quest’ultimo è tenuto a riversare al datore di lavoro qualsiasi compenso a lui riconosciuto, in qualità di amministratore di altre società del gruppo. In virtù di detto accordo, della quale la consociata estera ha informato la società italiana, l’assemblea dei soci della società italiana ha deliberato di riconoscere un compenso al proprio consigliere, dipendente della consociata estera, disponendo di corrispondere tale compenso direttamente alla consociata estera, come espressamente richiesto da quest’ultima. In merito al trattamento del compenso reversibile in capo al dipendente, l’Agenzia esclude che possa configurarsi il presupposto impositivo. Al riguardo, l’Agenzia richiama l’articolo 51, comma 2, lettera e), del Dpr 917/1986, secondo il quale non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i compensi reversibili alle lettere b) ed f) del comma 1 dell’articolo 50 del Tuir. In particolare, la lettera b) assimila ai redditi di lavoro dipendente le somme e valori che il prestatore di lavoro percepisce da soggetti diversi dal proprio datore di lavoro per incarichi svolti in relazione alle funzioni della propria qualifica e in dipendenza del proprio rapporto di lavoro. Sono tuttavia espressamente esclusi dal novero dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente i compensi che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro, i quali non costituiscono redditi di lavoro dipendente e neppure redditi assimilati a quello dipendente (circolare 326/1997, paragrafo 2.2.5).

Nelle note 8/166 del 1977 e 8/196 del 1980, il ministero delle Finanze ha peraltro già riconosciuto che non concorrono alla determinazione del reddito i compensi reversibili percepiti dai collaboratori coordinati e continuativi, tra i quali rientrano i consiglieri di amministrazione, in base al principio generale secondo cui non configurano reddito di un soggetto le somme di cui egli non ottenga la disponibilità. Per quanto riguarda il trattamento in capo alla società italiana, conformemente alla recente giurisprudenza di legittimità (si vedano Cassazione 2067 del 2021 e Cassazione 22479 del 2020), l’Agenzia riconosce che nel caso dei «compensi reversibili» la spesa sostenuta si riferisce a una prestazione di servizi, deducibile secondo competenza, ai sensi dell’articolo 109 del Tuir, e non un compenso da amministratore deducibile per cassa, in base all’articolo 95, comma 5, del Tuir. Superando la precedente risposta 167/2019, l’Agenzia conclude che quanto corrisposto debba essere inquadrato nell’ambito dell’articolo 7 della Convenzione e, in ambito domestico, dell’articolo 23, comma 1, lettera c) del Dpr 917/1986. Pertanto, in assenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato della consociata estera, i compensi erogati dalla società italiana concorrono al reddito di impresa della consociata, da tassare esclusivamente nello Stato di residenza, non risultando applicabile la ritenuta a titolo di imposta del 30% prevista dall’articolo 24, comma 1-ter del Dpr 600/1973. Nella risposta, l’Agenzia chiarisce che l’articolo 7 della Convenzione risulta applicabile «atteso che il pagamento (…) è effettuato direttamente tra le due società consociate, senza alcun riversamento da parte del dipendente a favore del proprio datore di lavoro» Non pare tuttavia si possa giungere a conclusioni differenti qualora il compenso sia prima corrisposto al consigliere e, da quest’ultimo, riversato al datore di lavoro estero, atteso che, anche in questo caso, il possessore del reddito resta la consociata estera (note 8/166 del 1977 e 8/196 del 1980).

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