L’insidia dell’Ires per chi investe in criptovalute
La tecnologia blockchain è sempre più al centro dell’attenzione degli operatori economici, come sottolineato, del resto, anche dall’Ocse nel documento «Tax Challanges Arising from Digitalisation - Interim Report 2018» del 16 marzo scorso. È dunque molto probabile che le criptovalute - “monete virtuali” basate su questa tecnologia - rivestiranno un ruolo sempre più importante nel futuro, al di là del clamore - di matrice principalmente mediatica - che le ha accompagnate negli ultimi mesi. Ne è prova il trend in forte crescita delle società, principalmente start-up innovative, che stanno investendo nella cripto-economy, nonostante le difficoltà legate all’assenza di una vera e propria regolamentazione organica in materia.
A oggi, si registrano solo interventi isolati - si pensi all’introduzione del concetto di «valuta virtuale» nella disciplina antiriciclaggio a opera del Dlgs 90/2017 - mancando, invece, un inquadramento sistematico, in particolare sotto il profilo contabile e fiscale.
L’unica posizione ufficiale assunta dall’agenzia delle Entrate sul fenomeno “criptovalute”, contenuta nella risoluzione 72/E del 2016 (condivisa da alcune direzioni regionali in altre risposte a istanze di interpelli non pubblicate), ha fornito chiarimenti certamente utili ma riguardanti solo una parte del fenomeno: nel documento di prassi, l’amministrazione conclude che le criptovalute sono assimilabili, dal punto di vista fiscale, a «valute estere» e, come tali, devono essere, al termine di ogni esercizio, valutate a «valore normale», intendendo per tale «il valore corrispondente alla quotazione degli stessi bitcoin al termine dell’esercizio».
È pero evidente che questa posizione non può che valere per la specifica tipologia di società a cui la risoluzione si rivolge, dunque alle società che svolgono attività di acquisto/vendita a pronti di criptovalute per conto della clientela (i cosiddetti “exchanger”), mentre potrebbe rivelarsi non adeguata per le società che investono in criptovalute per finalità diverse, ad esempio per supportare progetti di “Initial coin offering” (le cosiddette Ico), cioè emissioni di “token” volti a sostenere, in un orizzonte di medio-lungo periodo, progetti basati sulla tecnologia blockchain. Ebbene, per questi operatori, l’individuazione del trattamento fiscale richiederebbe maggiore attenzione, anche alla luce del principio di “derivazione rafforzata”, oggi valido anche per i soggetti Oic, che lega il reddito imponibile al corretto inquadramento contabile delle vicende aziendali.
Ora, se da un lato i principi contabili ancora non si occupano specificamente della rappresentazione delle criptovalute in bilancio, dall’altro lato i principi generali - e in particolare quello che prevede la distinzione tra investimenti posseduti per la negoziazione e quelli detenuti durevolmente - consentirebbero una rappresentazione contabile calibrata in funzione della finalità sottesa al loro impiego. Di modo che, ove le stesse siano destinate a essere impiegate durevolmente, andrebbero classificate come immobilizzazioni finanziarie, dunque valutate al costo. Mentre, in caso contrario, andrebbero classificate come asset finanziari posseduti per la negoziazione, dunque valutate al “fair value”, in via similare (in questo caso sì) per le disponibilità di valuta estera.
Ciò posto, la prima classificazione sembrerebbe più idonea a rappresentare la reale finalità perseguita dagli operatori interessati a investimenti nella tecnologia blockchain e nei progetti altamente innovativi a questa connessi; investimenti che per loro stessa natura si prestano a essere di medio/lungo periodo.
Del resto, per queste particolari attività, se si seguisse il criterio indicato dal Fisco nella risoluzione 72/E, e dunque si valutassero le “criptovalute” al “fair value”, si arriverebbe - soprattutto in un contesto di estrema volatilità qual è quello attuale - al risultato contabile di dare rappresentazione in bilancio utili non definitivi, e a quello fiscale di assoggettare a tassazione redditi non effettivamente realizzati, in quanto potenzialmente destinati a riassorbirsi a stretto giro, con evidenti svantaggi sotto il profilo finanziario.
Si pensi al caso di un esercizio chiuso in fase rialzista, con conseguente emersione di plusvalenze, immediatamente seguito da un esercizio chiuso in fase di ribasso, con conseguente riallineamento al valore iniziale di acquisto: seguendo la soluzione indicata nella risoluzione 72/E, la società sarebbe obbligata al versamento di imposte sul capital gain emerso nel primo periodo d’imposta, a nulla rilevando la successiva perdita, che sarebbe al più compensabile solo con eventuali risultati positivi futuri. In altri termini, in un contesto di sostanziale assenza di reddito, ci si troverebbe ad anticipare un’imposta Ires a posteriori non dovuta.
Per contro, la valorizzazione al “fair value” - suggerita dalla risoluzione 72/E - pare coerente con l'attività concretamente svolta dagli “exchanger”, che fanno del “trading” il loro “core business” e dunque puntano a risultati di breve periodo. Non è infatti un caso che a questa categoria appartenga il soggetto destinatario della risoluzione stessa.
Si auspica dunque che anche l’agenzia delle Entrate si inserisca sull’onda lunga dei chiarimenti, da poco partita, in tema di cripto-economy, e nel breve futuro fornisca le indicazioni anche per le altre tipologie di soggetti che, nello svolgimento della propria attività connessa alla tecnologia blockchain, effettuano investimenti - non speculativi - in criptovalute.