Professione

L’Ue non ripieghi su 28 imposte nazionali

di Mauro Marè

La diffusione delle piattaforme a più lati è molto cresciuta, sono ormai dappertutto. Gli effetti economici saranno rilevanti sul piano economico, industriale e fiscale. Alcuni saranno molto positivi: l’accesso dei consumatori a una mole incredibile di beni, servizi e dati; modifiche profonde del modo di produrre e consumare; effetti sulla produttività e la concorrenza notevoli, ma non facilmente prevedibili. Altri sollevano diverse inquietudini, soprattutto sul piano tributario.

L’economia digitale ha fatto emergere nuove imprese monopolistiche e ha profondamente alterato la catena del valore. La raccolta, l’elaborazione e l’utilizzo dei dati sono ormai fattori strategici cruciali: interi settori sono stati profondamente trasformati – editoria, audiovisivo, viaggi, sanità –, molti altri lo saranno in futuro.

L’aspetto decisivo è il ruolo degli intangibles, dei beni immateriali, come i brevetti, la proprietà intellettuale, gli algoritmi digitali e i big data. Si è affermato un “capitalismo senza capitale” che avrà effetti rilevanti: industriali, macroeconomici, sulla concorrenza e sul fisco, con il rischio di scomparsa di parte delle basi imponibili o di trasformazione del mercato del lavoro.

Dopo il rapporto Beps (Base erosion and profit shifting) dell’Ocse, la Commissione europea ha presentato nel marzo 2018 due proposte di direttiva che prevedono: una digital service tax, un’imposta reale sul fatturato del 3%, che dovrebbe tassare le prestazioni di alcuni servizi di imprese digitali con alcune specifiche soglie. Questa imposta verrebbe poi ripartita sul piano comunitario tra gli stati in base al numero di utenti; la revisione della nozione di stabile organizzazione con il concetto di “significant digital presence”, che attribuirebbe i profitti nei vari Stati secondo diversi criteri (valore dei servizi digitali; numero di fruitori o ancora numero di contratti). L’Italia ha approvato una web tax secondo queste linee che si spera sia attuata. È un primo tentativo, si dovrà affinare il suo funzionamento e capirne gli effetti.

Il G20 finanziario che si è appena concluso in Giappone ha con forza ribadito l’importanza che si trovi una soluzione soddisfacente alla tassazione delle basi imponibili digitali, che garantisca che queste basi non aggirino la tassazione (diretta e indiretta), ponendo quindi una sfida cruciale ai bilanci pubblici. Una soluzione che non dovrebbe essere unilaterale o ad hoc paese per paese, ma il più possibile comune a livello Ue e Ocse. Alcuni paesi sono pronti ad agire e lo hanno già fatto (Italia, Francia, Gran Bretagna), altri sono contrari, come Usa e Cina, per ovvi motivi – la Germania, per il timore di rappresaglie commerciali, è adesso “in pausa”.

Il principale aspetto tecnico, oltre alla distribuzione dei taxing rights tra paesi, è quello di riportare il gettito in linea con la produzione del valore aggiunto. La tassazione dell’economia digitale non deve avere caratteristiche punitive o produrre ritorsioni commerciali, ma deve garantire però che non scompaia o venga occultata una quota importante delle basi imponibili. In un mondo di piattaforme a più lati mondiali, l’imposta sulle società non è più in grado da sola di assicurare che la nuova creazione di valore digitale sia adeguatamente stimata e tassata.

Il percorso tracciato dall’Ocse e dall’Ue va nella giusta direzione, ma l’accordo politico non è ancora all’orizzonte. Perciò restiamo convinti che serva una forma di tassazione della piattaforme digitali. Le ragioni per una forma di tassazione dei ricavi, oltre ai profitti, restano valide nel mondo immateriale dei dati, anche se vanno attentamente considerati i possibili effetti negativi (cascata), la traslazione sui consumatori e la ripartizione del gettito tra gli Stati. Lo spostamento verso forme di tassazione con imposte reali è nei fatti e, anzi, andranno esplorate forme di tassazione più esplicite sui dati e le transazioni fisiche.

Sul piano politico, se i grandi paesi, in particolare quelli dell’Ue, abbandonano una posizione comune su un tema così decisivo, commettono un errore. O l’Unione esiste come dimensione sovranazionale su questa materia, oppure avremo soluzioni unilaterali. Serve una soluzione comune e condivisa, non 28 imposte digitali nazionali.

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