La cessione di licenze e immobili a un fondo di investimento non è cessione d’azienda
La sentenza n. 3667/22/17 della Ctp di Milano, depositata il 25 maggio scorso, ha per oggetto il regime impositivo ai fini delle imposte di registro ed ipocatastali di un’operazione mediante la quale un gruppo operante nel settore della grande distribuzione aveva trasferito a un fondo comune di investimento immobiliare (gestito da una Sgr, soggetta a vigilanza della Banca d’Italia) una pluralità di centri commerciali. L’operazione è stata realizzata mediante: (a) cessione al fondo della proprietà dei fabbricati e (b) conferimento delle licenze commerciali in una società di nuova costituzione, le cui partecipazioni sono state cedute al medesimo fondo. L’agenzia delle Entrate, in applicazione dell’articolo 20 del Dpr 131/1986, riqualificava i vari atti in unico atto unitario di cessione diretta di azienda a favore del fondo, motivando la propria pretesa sostanzialmente in ragione del fatto che il Fondo sarebbe divenuto titolare sia dei beni immobili, sia (ancorché indirettamente) delle licenze commerciali. La sentenza presenta profili di grande interesse in merito alle ragioni per cui la tesi erariale è stata disattesa.
I giudici milanesi hanno infatti accolto le doglianze del contribuente valorizzando una pluralità di elementi, tra cui un ruolo preminente è stato attribuito alla presenza dei vincoli di natura regolamentare gravanti sui fondi comuni di investimento, ai quali è precluso lo svolgimenti di un’attività commerciale. Per tale ragione i giudici hanno ritenuto che «gli atti sottoposti alla registrazione manifestano le precise intenzioni delle parti coinvolte», non essendo possibile neppure astrattamente ipotizzare il valido perfezionamento del negozio risultante dalla riqualificazione operata dall’Agenzia (i.e. cessione di azienda al fondo).
L’analisi della fattispecie ha quindi indotto il collegio ad annullare l’avviso di liquidazione in quanto l’equiparazione prospettata dall’ente impositore tra la detenzione della partecipazione nella società operativa (bene di secondo grado) e la titolarità diretta delle licenze (beni di primo grado) non era solamente errata (cfr. Cass. n. 17948/2012 e n. 16963/2014), ma nel caso di specie era radicalmente irrealizzabile da un punto di vista giuridico.
È perciò senza dubbio condivisibile il principio affermato dalla sentenza, secondo cui la qualificazione degli atti ai fini dell’imposta di registro deve essere eseguita prendendo in esame tutti gli elementi che – da un punto di vista giuridico – giustificano il ricorso ad un determinato schema negoziale. In altri termini, l’art. 20 del Dpr 131/1986 consente all’amministrazione finanziaria di ricostruire, attraverso un'indagine complessiva di uno o più atti, la reale natura giuridica della fattispecie negoziale, senza fermarsi al nomen iuris ed alla mera interpretazione letterale degli atti registrati, a condizione che non ne siano stravolti la corretta qualificazione civilistica e gli effetti giuridici concretamente realizzati. Non può infatti ritenersi legittima una tassazione che prescinde da una riflessione ragionata degli effetti giuridici degli atti negoziali, basata unicamente sull’esame dei relativi profili economici, che nel caso di specie avrebbe addirittura comportato l’applicazione del regime impositivo proprio di negozi giuridici impossibili ex lege.