Controlli e liti

La disciplina dell’impresa familiare si applica anche al convivente di fatto

La sentenza 148/2024 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli articoli 230 bis e 230-ter del codice civile

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di Francesco Machina Grifeo

La Corte costituzionale ( sentenza 148/2024 depositata il 25 luglio) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare - oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo - anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». Inoltre, in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

Le questioni sono state sollevate nel corso di un giudizio introdotto dalla convivente di un uomo deceduto, in costanza del rapporto affettivo, nei confronti dei figli e coeredi. La donna aveva chiesto al Tribunale di Fermo l’accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, relativa a una azienda agricola, chiedendo la condanna alla liquidazione della sua quota, in quanto partecipante all’impresa. La ricorrente aveva dedotto di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell’azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012.

Il Tribunale di Fermo aveva rigettato la domanda rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato «familiare» ai sensi dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile. La Corte d’appello di Ancona, sezione lavoro, aveva confermato il rigetto sull’identico presupposto, escludendo, altresì, l’applicabilità dell’articolo 230-ter del Codice civile, in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell’impresa familiare.

A questo punto, la donna ha proposto ricorso in Cassazione denunciando, tra l’altro, «la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale». La Sezione lavoro della Suprema corte ha chiesto l’intervento delle Sezioni unite che rinvenendo “concreti dubbi” di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui «non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio», per violazione degli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché per violazione dell’articolo 9 Cdfue e dell’articolo 117, primo comma, Cost., hanno rimesso la questione alla Consulta.

Il Giudice delle Leggi per prima cosa ricorda che per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dall’articolo 1, comma 36, di tale legge – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale». Quindi, al termine di una lunga ricostruzione normativa e giurisprudenziale, accoglie le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

Rimangono le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito.

La Corte - nel sottolineare che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare - ha ritenuto, quindi, irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

All’ampliamento della tutela apprestata dall’articolo 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-ter del Codice civile, che - nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare - comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.

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