La doppia imposizione frena la rivalutazione di quote detenute all’estero
È necessario valutare l’impatto delle somme da versare prima di procedere alla rivalutazione di quote societarie detenute all’estero: l’eventuale convenzione contro le doppie imposizioni stipulata dall’Italia con il Paese estero in cui è stabilita la società partecipata potrebbe incidere sulla convenienza fiscale dell’operazione. Nel caso in cui, infatti, la convenzione preveda la potestà impositiva solo in Italia, andrà effettuato solo il confronto tra la tassazione ordinaria e quella sostituiva prevista dalla legge di rivalutazione. In presenza, invece, di convenzioni che prevedano la tassazione in entrambi gli Stati - come ad esempio accade in Francia per le Sci immobiliari - il contribuente dovrà informarsi altresì delle imposte dovute all’estero che, per le cessioni effettuate dal 1° gennaio 2019 in avanti, non potranno più essere scomputate dall’imposta italiana mediante il meccanismo del credito d’imposta estero, previsto dall’articolo 165 del Tuir. In queste ipotesi, quindi, l’esborso finanziario è rappresentato dalla somma delle imposte italiane (ordinarie e/o sostitutive a seconda della scelta di procedere o meno alla rivalutazione fiscale) e delle imposte estere (che non potranno essere attenuate in considerazione del fatto che il costo fiscale rivalutato vale unicamente per la determinazione della plusvalenza imponibile in Italia).
La rivalutazione delle partecipazioni estere pone in capo al contribuente più adempimenti in termini di analisi preliminari da effettuare per valutarne gli impatti fiscali. Per tali partecipazioni, infatti, è d’obbligo analizzare le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate tra l’Italia ed il Paese estero in cui è situata la società, al fine di verificare in entrambi i Paesi la tassabilità dell’eventuale plusvalenza derivante dalla cessione delle quote. Le convenzioni stipulate dall’Italia si rifanno al contenuto dell’articolo 13, paragrafo 5 del modello Ocse che, nel caso di partecipazioni estere, prevede la tassazione delle plusvalenze solo nello Stato contraente ove è residente il cedente, quindi solo in Italia. Questa è la situazione ideale in quanto il contribuente può disinteressarsi degli aspetti fiscali del Paese estero e concentrarsi solo sui classici calcoli necessari ad individuare la convenienza finanziaria della rivalutazione; ma è anche l’ipotesi più semplice. Alcune convenzioni lasciano infatti all’altro Stato il potere di tassare le plusvalenze derivanti dalla cessione delle quote.
Ad esempio, nella convenzione stipulata con la Francia (articolo 8 del protocollo della convenzione) la potestà impositiva è riservata a quest’ultima nel caso delle società immobiliari (lettera a) del protocollo) e nel caso in cui la partecipazione sia almeno pari al 25% del capitale (lettera b) del protocollo). In questi casi è evidente che il contribuente, per calcolare l’effettivo esborso finanziario derivante dalla cessione delle quote, dovrà informarsi anche sul regime di tassazione esistente nel Paese estero. Se, infatti, il costo rivalutato della partecipazione azzera o riduce la plusvalenza ai fini delle imposte italiane, lo stesso non potrà dirsi per l’imposta estera in quanto nello Stato estero per la determinazione del reddito imponibile probabilmente verrà preso a riferimento il costo fiscale originario ante rivalutazione. Il Commentario all’articolo 13 del modello Ocse ammette, infatti, che ogni stato possa determinare in base alle proprie regole le plusvalenze e che, quindi, le tassi in modo differente. L’esempio riportato nel commentario è il seguente: una società residente nello Stato A detiene un immobile nello Stato B e lo ammortizza in base ai propri principi contabili; se le regole contabili dello Stato B non prevedono l’ammortamento, la plusvalenza tassabile nello Stato A sarà più alta e differente di quella dello Stato B in quanto quest’ultimo utilizzerà un costo fiscale più alto.
Una volta appurato dalla convenzione l’esistenza di un fenomeno di doppia imposizione generato dalla tassazione concorrente in entrambi gli Stati, è opportuno per il contribuente verificare la possibilità di scomputare l’imposta estera da quella italiana mediante il meccanismo del credito d’imposta (articolo 165 del Tuir). Questo è un aspetto molto importante e che deve essere rivisto in funzione dell’estensione, a partire dalle cessioni di quote effettuate dal primo gennaio 2019, dell’aliquota di imposta sostituiva del 26% anche alle partecipazioni qualificate. Se per queste ultime, infatti, in precedenza era possibile attenuare il prelievo del Paese estero attraverso lo scomputo dell’imposta estera da quella italiana, allo stato attuale, come sempre avvenuto per le partecipazioni non qualificate, l’imposta estera non può più essere detratta.