Controlli e liti

La registrazione di false fatture legittima l’accertamento dell’ufficio

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di Salvina Morina e Tonino Morina

La registrazione di fatture false legittima l’accertamento del Fisco. È corretto perciò l’operato dell’ufficio che, nell’emettere l’accertamento, si avvale dell’applicazione dello studio di settore come criterio di giudizio per rideterminare i ricavi e i redditi dell’impresa. Dopo la bocciatura in primo e secondo grado, arriva anche la terza bocciatura per il contribuente. Per la Cassazione, sentenza 10030/2018, depositata il 24 aprile 2018, deve essere perciò rigettato il ricorso del contribuente. Ecco i fatti.

La bocciatura in primo e secondo grado
Nei confronti di una società a responsabilità limitata, l’agenzia delle Entrate aveva emesso un accertamento per l’anno 2003, per Iva, Ires ed Irap, oltre sanzioni ed interessi. L’accertamento dell’ufficio era basato su una indebita deduzione di costi fittizi per operazioni inesistenti e tenuto conto dei parametri reddituali derivanti dallo specifico studio di settore.
Il ricorso della società veniva respinto dalla Commissione tributaria provinciale di Roma, sentenza poi confermata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio.

La sentenza della Cassazione
Nel ricorso in Cassazione, la società lamenta il fatto che la Commissione tributaria regionale:
■abbia escluso l’illegittimità dell’accertamento analitico induttivo perché operato dall’ufficio sulla base dello studio di settore;
■l’accertamento in base allo strumento induttivo sarebbe stato fondato sull’asserito utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, non provate, e, comunque, di scarsa entità rispetto al volume d’affari;
■le gravi incongruenze, necessarie ai fini della rilevanza dello studio di settore, sono state riferite alla divergenza tra reddito dichiarato e reddito rettificato, anziché ai ricavi, in concreto divergenti nella percentuale del 5 per cento.

Per la Cassazione, le censure del contribuente sono inammissibili e, pertanto, va confermata la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio. Per la Cassazione, «va peraltro rilevato che, nella specie, l’accertamento è stato di tipo analitico induttivo ma non in base allo studio di settore e, invece, si è fondato, come rilevato dalla Ctr … “sulla individuazione da parte dell’ufficio di fatture relative ad operazioni inesistenti”. Lo studio di settore …. è stato utilizzato, invero, solo quale criterio di giudizio per la rideterminazione, in termini oggettivi e comparabili, del reddito d’impresa e, dunque, solo per la valutazione della congruità della ricostruzione induttiva del reddito d’impresa».

I giudici di legittimità precisano inoltre che gli studi di settore «costituiscono “solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati” (Cassazione, n. 20060 del 24 settembre 2014) e che l’ufficio, ove consideri i dati desumibili dagli studi di settore, “non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente” (vedi Cassazione n. 16430 del 27 luglio 2011)».

Inoltre, l’impiego dei dati e delle indicazioni dello studio di settore non ha assunto rilievo nell’ambito di un accertamento parametrico, ma, invece, è stato considerato, all’interno di un accertamento analitico induttivo, quale elemento presuntivo apprezzato unitariamente alla riscontrata fittizietà delle operazioni ai fini della rideterminazione del reddito d’impresa. In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso della società, condannando la stessa a pagare le spese di giudizio a favore dell’agenzia delle Entrate, liquidate in 8mila euro, oltre spese.

Cassazione, sentenza 10030/2018

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