La tassa sui money transfer a rischio illegittimità
Confusione sulla nuova imposta sulle rimesse di denaro all'estero che principalmente grava sugli immigrati extraeuropei (articolo 25-novies, Dl 119/2018). Vi sono seri dubbi sulla legittimità della norma e, in ogni caso, non è ancora chiaro come l'imposta debba essere calcolata, riscossa e versata.
In dettaglio, dal 1° gennaio 2019, dovrebbe essere applicata una imposta sui trasferimenti di denaro, a esclusione delle transazioni commerciali, effettuati verso Paesi non appartenenti all'Unione europea, dagli istituti di pagamento che offrono servizi di «rimessa di somme di denaro». L'imposta sarebbe pari all'1,5% del valore di ogni singola operazione effettuata, a partire da un importo minimo di euro 10. Dall'imposizione fiscale rimangono escluse le micro operazioni, ovvero quelle inferiori a 10 euro, che tuttavia nella prassi sono poco frequenti, considerato che in genere le commissioni applicate dagli operatori hanno una componente fissa.
Nella norma non sono specificate le modalità di versamento dell'imposta né se l'imponibile sia al lordo o al netto delle commissioni addebitate dal money transfer. Il costo complessivo della rimessa è costituito da due componenti: la commissione diretta o in senso stretto, che può essere di ammontare fisso oppure percentuale sulla somma inviata (di solito con una cifra minima e con valori diversi a seconda delle fasce di denaro trasferito) e il costo per lo spread tra tasso di cambio applicato al cliente e quello sostenuto dall'operatore. In attesa di chiarimenti, è ragionevole supporre che l'imposta debba essere calcolata sul denaro da trasferire al netto della commissione diretta. A questo problema dovrebbe porre rimedio un futuro provvedimento attuativo, da emanarsi entro il 17 febbraio 2019 cioè quasi due mesi dopo la data di prima applicazione della tassa.
Permangono comunque notevoli incertezze sulla legittimità dell'imposta.
Già nel 2011 si tentò di introdurre un analogo tributo sulle rimesse, (articolo 2, comma 35-octies del Dl 138/2011). L'imposta di bollo prevista all'epoca era del 2% sulle somme trasferite, con un minimo di prelievo di 3 euro (con una completa esenzione per i trasferimenti effettuati da persone fisiche munite di matricola Inps e codice fiscale) e tra i sostituti di imposta erano inclusi anche gli istituti bancari e gli altri agenti di attività finanziaria oltre che le agenzie di money transfer. L'articolo 3, comma 15 del Dl 12/2012 abrogò l'imposta, ancora prima che venisse concretamente applicata, per vari motivi (come si desume dalla relazione):
• non pregiudicare il raggiungimento dell'obiettivo adottato nel vertice G20 di Cannes su proposta dell'Italia della riduzione del costo medio globale di trasferimento delle rimesse dal 10% al 5% in 5 anni (il cosiddetto “obiettivo 5 per 5”);
• evitare la migrazione di ingenti flussi monetari dai canali di trasferimento ufficiali a quelli non autorizzati, privi di forme di controllo, tracciabilità, protezione e tassazione. Tale deviazione di flussi monetari su canali illegali è stato, all'epoca, stimato in 2 miliardi di euro su base annua.
È possibile che le priorità del legislatore, a distanza di sei anni, siano cambiate, ma resta il fatto che la norma è in chiaro contrasto con l'articolo 63 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (non derogato, nel caso in esame, dagli articolo 64 e 65) che, al paragrafo 1, che vieta «tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi» (si veda Corte di giustizia Ue, cause rinite C-163/94, C-165/94 e C-250/94; C- 190/17 e cause riunite C-52/16 e C-113/16). A questo proposito si deve tener presente come i «trasferimenti dei risparmi degli immigrati nel Paese di residenza anteriore, durante la loro permanenza all'estero» oltre che in generale l'importazione o esportazione di «mezzi di pagamento di ogni tipo» sono elencati nella Nomenclatura dei movimenti di capitali, allegato I alla Direttiva 361/88/CEE, costantemente citato dalla giurisprudenza sull'articolo 63 del Trattato (si veda, da ultimo, la sentenza C-685/16).