La web tax punta ai servizi digitali
La web tax all’italiana ossia la nuova imposta del 3% sul valore di alcune transazioni digitali business to business (B2B) - quindi non verso i consumatori (B2C) - entrerà in vigore nel 2019.
È una imposta indiretta a carico di operatori economici italiani e stranieri che in un anno effettuino più di tremila prestazioni di servizi “digitali”, quali la pubblicità on line e il cloud computing. È settoriale, nel senso colpisce solo un segmento del variegato mondo di una economia digitale, che evidentemente corre troppo veloce per il fisco. L’aliquota è fissata al 3% delle vendite di tali servizi, che dovranno essere puntualmente indicati da un decreto del Mef. La base imponibile, sia per i soggetti italiani che stranieri, è il corrispettivo pattuito tra imprese al netto dell’Iva, senza concessione di crediti di imposta come inizialmente proposto. L’imposta è trattenuta all’atto del pagamento da chi riceve il servizio (committente), con obbligo di rivalsa sui prestatori. È poi versata dal committente entro il 16 del mese successivo al pagamento. Il meccanismo ricorda quello di una ritenuta applicata e versata dal committente. Ai fini accertativi e contenziosi si applicheranno le disposizioni in materia di Iva.
Nel dettaglio le prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici oggetto del nuovo tributo dovranno essere individuate da un decreto del Mef da emanarsi entro il 30 aprile 2018. Si dovrà trattare, come indicato in termini generali dalla stessa norna, di servizi forniti attraverso internet essenzialmente “automatizzati”, ovvero con un intervento umano minimo, impossibili da rendere in assenza di tecnologia e intervenuti tra operatori economici (ovvero B2B), con esclusione quindi del commercio elettronico tradizionale verso i consumatori (B2C), che non restano (almeno direttamente) incisi dal tributo. Esemplificando, si può pensare ai servizi di analisi, trasmissione e elaborazione di dati, o alla pubblicità sui social media o motori di ricerca online o alla promozione di servizi affittando spazi virtuali su un portale che li intermedia.
La puntuale individuazione dell’ambito di applicazione oggettivo dell’imposta sarà uno snodo cruciale (sul cosa tassare nel digitale si veda anche il recente position paper del governo inglese, www.gov.uk, e la consultazione Ocse, www.oecd.org).
Le modalità attuative ed il monitoraggio delle transazioni non saranno immediati, viste le difficoltà di intercettare le prestazioni, soprattutto se rese dall’estero (paradigmatiche le difficoltà applicative delle nuove regole sull’Iva digitale, che prevede l’applicazione del tributo nel Paese del consumatore). Inoltre il nuovo tributo sembra avere natura indiretta (e non ha più abbinata la concessione di un credito di imposta, come nella precedente versione, così che si genera una doppia imposizione per chi già paga imposte in Italia) e c’è il rischio che sia considerato un duplicato dell’Iva (sul “consumo” del servizio digitale), con gli annessi rischi di incompatibilità comunitaria. In definitiva ci si è allontanati dalla ambiziosa (e altrettanto rischiosa) volontà di introdurre una equalization levy (ovvero una imposizione “compensativa” per far pagare imposte nel luogo di produzione dei ricavi alle aziende che non scontano imposte né in questi né nel Paese della fonte). Si è scelta la strada (ancorchè l’entrata in vigore differita al 2019 potrebbe consentire modifiche) di colpire con una sovraimposta solamente un comparto dell’economia digitale, che peraltro sarà compiutamente individuato solo a seguito dell’adozione del decreto del Mef (indeterminatezza che genera qualche pensiero anche circa il rispetto della riserva di legge ex articolo 23 della Costituzione). Il percorso accidentato che ha portato all’adozione della nuova imposta e le perplessità che essa genera confermano la necessità di un approccio internazionale alla tematica.