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LE PAROLE DEL NON PROFIT/Terzo settore, gli enti tracciano l’identikit dei nuovi associati

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di Martina Manfredonia e Gabriele Sepio

In questa fase di adeguamenti statutari alla riforma del Terzo settore (Dlgs 117/2017) un aspetto su cui gli enti sono chiamati a prestare attenzione riguarda le regole per l’ammissione di nuovi associati. Il sistema associativo è naturalmente a “porta aperta”, in quanto improntato a garantire il libero accesso di tutti coloro che hanno interessi conformi a quello dell’ente nel rispetto dei principi di democraticità e partecipazione. Ciò, tuttavia, non vuol dire attribuire un diritto incondizionato all’ingresso: ciascun ente deve fissare nel proprio statuto i requisiti di ammissione degli associati, che siano coerenti con le finalità perseguite e non discriminatori. Proprio sul carattere non discriminatorio si gioca la partita, dovendosi valutare attentamente se i requisiti individuati pongano o meno una ingiustificata restrizione all’accesso.

Così, ad esempio, escludere dalla compagine associativa un minore è sicuramente discriminatorio in quelle realtà che, per le finalità perseguite, si rivolgono proprio a questa platea di soggetti beneficiari, come le associazioni ricreative, sportive o che operano nel settore dell’educazione. Il minore, in questi casi, non solo ha pieno diritto di associarsi (magari col supporto del genitore), ma anche di partecipare attivamente alla vita associativa esprimendo il suo voto in assemblea (sempre per il tramite del soggetto che ne ha la rappresentanza legale). Discorso diverso, per quelle associazioni che svolgono attività potenzialmente pericolose, come quelle di protezione civile, per le quali la richiesta della maggiore età è giustificata proprio dalla tipologia di attività.

Ecco quindi che, come chiarito dal ministero del Lavoro (nota n. 1309 del 6 febbraio 2019), le previsioni statutarie più che fissare dei limiti alle adesioni, devono «tracciare una sorta di identità associativa», ossia individuare i valori fondanti dell’ente e le relative attività istituzionali, così da stimolare l’ingresso di soggetti che, riconoscendosi in detti valori, desiderano dare il loro contributo alla mission dell’ente. Tale previsione potrà fungere anche da metro di valutazione del singolo associato ai fini della sua permanenza nell’ente, potendosi legittimamente prevedere l’esclusione di coloro che abbiano adottato una condotta incompatibile con i valori e le finalità dell’associazione.

Altri i requisiti spesso presenti negli statuti sono la richiesta di titoli di studio agli associati o la cittadinanza italiana. Entrambi sono parametri border line, che potrebbero non passare il vaglio di ragionevolezza e non discriminazione posto dalla legge. Si pensi ad un’associazione attiva nella promozione e tutela dei diritti umani, che necessiti di soggetti abilitati alla professione forense per svolgere le attività giudiziarie. Richiedere il possesso di tale abilitazione a tutti gli associati rischia di restringere eccessivamente la platea dei potenziali associati, in maniera peraltro ingiustificata, posto che per tali attività sarà possibile rivolgersi a professionisti esterni alla compagine sociale. Diverso quando si tratta dei soggetti che devono ricoprire determinate cariche sociali all’interno dell’ente, come quella di controllo. In questi casi è sicuramente possibile, ed anzi auspicabile, il ricorso a persone dotate di specifiche competenze o qualifiche.

Ugualmente discriminatorio potrebbe essere il requisito della cittadinanza italiana. Lo straniero regolarmente residente sul territorio nazionale non può esercitare attività connesse all’esercizio di pubblici poteri ma beneficia dei diritti civili e sociali, per cui è necessario accertare caso per caso se precluderne l’associazionismo sia ingiustificato. Ammissibile, invece, potrebbe essere richiedere la residenza o il domicilio in una data regione, per quelle associazioni che operano esclusivamente su base territoriale e che svolgono attività strettamente legate alla regione.

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