Contabilità

Marchi e know how, il Fisco dice sì alla rivalutazione

Via libera dell’Agenzia in una risposta a interpello anche nel caso in cui i costi siano stati spesati <span id="U301250591160IiF" style="">a conto economico ma solo «in assenza di espresse disposizioni di segno contrario rilevanti ai fini fiscali»</span>

di Maurizio Leo

Finalmente la direzione centrale dell’agenzia delle Entrate ha chiarito che è possibile rivalutare i marchi e il know how i cui costi siano transitati esclusivamente a conto economico e non solo quelli espressi nell’attivo di bilancio. Tutto risolto allora? Forse no. Ma andiamo con ordine, perché la storia è lunga e neanche tanto lineare.

Punto di partenza è l’articolo 110 del Dl 104/2020, il quale ha previsto la possibilità di rivalutare asset aziendali, anche immateriali, sul piano civilistico, ottenendone, però, anche un riconoscimento fiscale, previo versamento di una imposta sostitutiva del 3 per cento.

I primi chiarimenti significativi sono intervenuti, di recente, in risposta a un question time, lo scorso 30 marzo. In tale sede, il ministero dell’Economia e delle finanze confermava chiaramente, sebbene implicitamente, la possibilità di rivalutare un marchio d’impresa giuridicamente tutelato i cui costi, anche solo di registrazione e o manutenzione, fossero stati iscritti nell’attivo del bilancio. Tale risposta, peraltro, si poneva in linea di perfetta continuità con quanto già in precedenza affermato nella circolare 14/E/17 (citata nella richiesta di parere), oltre che nelle, seppur confliggenti, risposte rese dalle Direzioni regionali della Lombardia e del Veneto. Nessun dubbio, quindi, sulla possibilità di rivalutare i marchi espressi in bilancio nell’attivo dello stato patrimoniale.

Diverso è il discorso per i marchi i cui costi sono stati spesati a conto economico e, quindi, mai oggetto di capitalizzazione. Su questa specifica situazione, dopo i primi dubbi proposti dalla dottrina (circolare Assonime 6/21), si era espresso l’Oic, che con il documento interpretativo 7 del 31 marzo scorso ne aveva chiarito la rivalutabilità, almeno sul piano civilistico.

È a questo punto che interviene la direzione centrale dell’agenzia delle Entrate, la quale, con una risposta tecnicamente ineccepibile, chiarisce che tale rivalutazione potrà assumere anche rilevanza fiscale, previo pagamento dell’imposta sostitutiva. L’Agenzia, ricordando che la rivalutazione nasce dalla esigenza civilistica di derogare al criterio del costo per rafforzare patrimonialmente le imprese italiane, fa perno proprio sui chiarimenti del documento Oic n. 7; nello specifico, condivisibilmente, si evidenzia che sarebbe ingiustificato distinguere le imprese che hanno proceduto a iscrivere a conto economico i costi di registrazione del marchio da quelle che, diversamente, hanno proceduto a capitalizzare tali oneri (per le quali nessun dubbio è mai sorto).

L’origine del problema

Fin qui, tutto bene. Tutto condivisibile. C’è un però. A preoccupare è la frase finale dell’interpello 956-343/2021, nel quale la direzione centrale delle Entrate precisa che la risposta vale «in assenza di espresse disposizioni di segno contrario rilevanti ai fini fiscali».

In effetti, è da tempo che si ipotizza un intervento legislativo di modifica della norma sulla rivalutazione, i cui contorni, allo stato, sono ancora poco chiari.

Va premesso che non pare possibile discriminare i contribuenti tra quelli che hanno acquisito il marchio da terzi e quelli che lo hanno autoprodotto e neppure tra quelli che hanno capitalizzato gli oneri e quelli li hanno spesati. Si tratterebbe, infatti, di una norma che potrebbe essere considerata iniqua e, forse, illegittima. In effetti, potrebbe sostenersi che verrebbero trattate in maniera difforme situazioni uguali.

Ciò detto in termini generali, non è chiaro neppure con che tipo di norma si potrebbe intervenire: se con una disposizione innovativa che, per definizione, spiegherebbe effetti dalla data di entrata in vigore, ovvero con una disposizione di interpretazione autentica.

Bisogna, però, ricordare che l’articolo 1 dello Statuto del contribuente prevede che le norme di interpretazione autentica possano intervenire solo in «casi eccezionali». Ma questo è un caso eccezionale? Verrebbe da pensare di no. D’altra parte, un intervento normativo di questo tipo si giustificherebbe solo per ragioni di gettito.

La scelta possibile

Se così è sarebbe preferibile, forse, intervenire con una nuova disposizione che, prendendo atto della impossibile distinzione tra situazioni analoghe, maggiori (senza esagerare) le aliquote della sostitutiva per i soli marchi e know how che hanno tempi di recupero più rapidi. Tutto ciò valutando adeguatamente le conseguenze in ordine al rispetto dell’articolo 3 della legge 212/2000. Però, in questo caso, il legislatore dovrebbe considerare che le imprese si stanno già accingendo ad approvare i bilanci e stanno anche sostenendo specifiche spese aggiuntive, ad esempio, per acquisire le perizie funzionali alla rivalutazione.

La ratio normativa

Si dovrebbe partire dalla comprensione della reale utilità che questa norma ha su un piano generale di politica economica. Rivalutare i marchi e il know how, infatti, significa anche proteggere le imprese da “assalti” di grandi gruppi stranieri che intendano fare shopping in Italia “a buon mercato”.

Ma questa è un’altra storia e meriterebbe ancora più attenzione. Intanto la confusione regna sovrana. E c’è da dire che la confusione è un lusso che oggi proprio non ci si può permettere.

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