Controlli e liti

Motivi infondati e inammissibili nel ricorso possono «costare» i danni punitivi

di Marco Ianigro e Valerio Vallefuoco

Nuovo segnale della Cassazione contro le impugnazioni pretestuose rigettando un ricorso giudicato erroneo e incompatibile con l’attuale quadro normativo. Chi credeva che un giudice potesse condannare una parte al risarcimento punitivo ex articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile, solo in presenza di dolo o colpa grave, sembrerebbe smentito: è sufficiente, infatti, una condotta oggettivamente valutabile alla stregua dell’abuso del processo. Con l’ordinanza 16801/2018 ( clicca qui per consultarla ), i giudici di legittimità sanzionano, infatti, il ricorrente con la condanna punitiva ex articolo 96 comma 3, del Codice di procedura civile. per aver proposto un motivo di impugnazione infondato e due motivi inammissibili. La conseguenza? Il soccombente non solo dovrà pagare le spese processuali per 7.200 euro ma anche altri 4mila euro di risarcimento per danni punitivi.

I magistrati di legittimità indicano che il comma 3 dell’articolo 96 del Codice di procedura civile configura un’autonoma e indipendente ipotesi di responsabilità aggravata rispetto a quelle dell’articolo 96 comma 1 e 2 del Codice di procedura civile, e per la sua applicazione neppure è richiesto l’elemento soggettivo della colpa grave e del dolo. La sua irrilevanza non è per la verità condivisa da tutti: è di soli due mesi fa, la sentenza 9912/2018 della Cassazione nella quale si legge che l’articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile «presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente (Cassazione 11 febbraio 2014 n. 3003), non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé sola rimproverabile (Cassazione 30 novembre 2012 n. 21570). Ed anche ai suoi fini si è ritenuto necessario applicare i principi elaborati dalla giurisprudenza e in tema di sussistenza ed apprezzamento della colpa grave della parte soccombente per la configurabilità della lite temeraria: ribadendosi che questa può essere in concrete circostanze ravvisata nella coscienza dell’infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza (colpa grave)».

Diversamente l’ordinanza 16801/2018 ha ripreso l’orientamento della sentenza 27623/2017 secondo cui l’articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile di abuso del processo. La questione non è senza rilievo. Si pensi che in questo caso dell’ordinanza 16801/2018, l’abuso è consistito nella presentazione di un ricorso in parte infondato e in parte inammissibile, perché parzialmente privo di requisiti di autosufficienza e tendente ad un riesame nel merito dell’intera vicenda. È bastato ciò per giungere alla condanna punitiva per abuso di impugnazione, trattandosi di una modalità di confezionamento del ricorso in cassazione, secondo i giudici, non più compatibile con il quadro ordinamentale; essa non tende a tutelare diritti ma aumenta solo il volume del contenzioso e va dissuasa.

La Cassazione ci tiene a ricordare che le Sezioni Unite (16601/2017) nel ritenere ontologicamente compatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi, hanno compreso l’articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile tra le fattispecie che «nel vigente ordinamento» italiano, assegnano alla responsabilità civile non solo la funzione di ripristinare la sfera patrimoniale della persona danneggiata, ma anche la funzione, interna al sistema italiano, di deterrenza e sanzionatoria del responsabile civile. Quello che interessa alla Corte è lanciare il messaggio: si va in cassazione per tutelare i diritti non per tenere in piedi un processo senza una valida ragione.

Cassazione, ordinanza 16801/2018

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