Controlli e liti

Nella divisione immobiliare l’imposta di registro è all’1%

immagine non disponibile

di Angelo Busani

La tassazione con l’imposta di registro del contratto di divisione potrebbe ricevere uno scossone dalla sentenza delle Sezioni unite 25021/2019 nonostante che la materia trattata nella sentenza non abbia alcunchè di tributario.

Con tale decisione, la Cassazione ha, infatti, affermato che tanto la divisione di una comunione ereditaria, quanto la divisione di una comunione ordinaria, qualsiasi sia la data di costruzione degli immobili oggetto di divisione, devono rispettare la normativa dettata, a pena di nullità degli atti traslativi, in tema di regolarità edilizia dei fabbricati (in sostanza, è nullo il contratto che non contenga la dichiarazione di anteriorità della costruzione al 1° settembre 1967 o non contenga la menzione dei titoli edilizi che siano stati rilasciati per abilitare le costruzioni realizzate dopo il 1967).

La sentenza 25021/2019

Ebbene, nel suo assai articolato ragionamento (la sentenza è di 55 pagine), la Cassazione compie una radicale inversione del suo pluridecennale orientamento (qualificandolo come «privo di solide fondamenta») circa la natura giuridica della divisione: ad esempio, nella sentenza 7604/2018 si leggeva che doveva intendersi come «pacificamente accolta la nozione di divisione come atto avente natura dichiarativa» e identico concetto si trova espresso in una molteplicità di precedenti occasioni (ad esempio, nelle decisioni 9659/2000, 7231/2006, 14398/ 2010, 17061/2011, 6942/ 2013, 26351/2017).

La Cassazione riferisce che questa conclusione costituiva «una delle costruzioni dogmatiche più risalenti e resistenti della dottrina tradizionale».

L’effetto retroattivo

Ora, invece, la Cassazione afferma l’erroneità di questa idea, con un ragionamento assai semplice: se è vero che la legge (l’articolo 757 del codice civile) sancisce l’effetto retroattivo della divisione (in altre parole, il condividente si deve considerare esclusivo titolare del bene che gli è assegnato in divisione fin dal momento in cui la comunione si è formata), ciò significa che la divisione ha un effetto traslativo e non dichiarativo: poiché, se avesse effetto dichiarativo, non ci sarebbe bisogno che la legge ne disponga la retroattività.

Infatti, se la divisione avesse una natura dichiarativa, sarebbe naturalmente retroattiva, senza bisogno che la legge lo disponga.

Trasportando, dunque, queste considerazioni nel campo dell’imposta di registro, occorre notare che la Tariffa parte prima allegata al Dpr 131/1986 (il Tur, testo unico dell’imposta di registro) dispone l’aliquota dell’1% per gli «atti di natura dichiarativa» (identicamente disponeva il Dpr 634/1972).

È stato fino a oggi incontroverso che l’esempio principe dell’atto «di natura dichiarativa» è la divisione: se la divisione non trovasse questa collocazione, inevitabile sarebbe l’applicazione delle aliquote proprie degli atti traslativi (pari, a seconda dei casi, al 9 o al 15% del valore imponibile, a meno che non si applichi l’agevolazione “prima casa” e, quindi, l’aliquota del 2%).

Un appiglio, però, per continuare a considerare la divisione, almeno dal punto di vista tributario, come un atto dichiarativo, è contenuto nell’articolo 34 del Tur il quale, assumendo evidentemente come indiscutibile presupposto l’idea della natura dichiarativa della divisione, afferma che deve essere «considerata vendita», «limitatamente alla parte eccedente» la divisione con la quale al condividente sono assegnati beni di valore superiore al valore della sua quota di comunione.

Con la conseguenza che manterrebbe natura dichiarativa l’assegnazione di una “quota di fatto” di valore non eccedente il valore della “quota di diritto”.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©