Non c'è elusione se committente e prestatore condividono la stessa compagine sociale
L’agenzia delle Entrate non ha il diritto di contestare una condotta elusiva nel caso in cui una società affidi l’esecuzione di alcuni servizi aziendali, dalla stessa eseguibili autonomamente, a una società terza con la quale condivide parzialmente la compagine sociale, in quanto tale contingenza non rappresenta un elemento eloquente di un supposto progetto elusivo. È quanto emerge dalla sentenza 11855/2017 della Cassazione .
Nella circostanza in esame, una società (A) aveva affidato delle attività di manutenzione afferenti ad alcuni macchinari a un’altra società (B), la quale risultava essere partecipata da taluni soci che rivestivano tale ruolo anche nella committente. Considerato che la società (A) era in grado di eseguire autonomamente tali prestazioni senza il supporto della società sorella (B), l’Ufficio aveva contestato l’antieconomicità di tale scelta.
La Cassazione tuttavia, menzionando la sua passata linea giurisprudenziale ( Cassazione 21390/2012 ) ha affermato che l’amministrazione finanziaria non aveva prodotto elementi di prova rilevanti, raffiguranti il disegno elusivo che la società (A) avrebbe realizzato assegnando l’esecuzione dei servizi alla società (B), non essendo qualificabile come tale la coincidenza di una parte della compagine sociale in entrambe le società. Pertanto per i giudici di legittimità, la strumentalità delle prestazioni in contestazione rispetto all’attività sociale soddisfava il requisito dell’inerenza, mentre l’antieconomicità risultava essere viziata da una carenza di supporto probatorio.
Tuttavia è necessario rammentare che, in merito alla contestazione di comportamenti antieconomici, la Cassazione ha da sempre ritenuto che l’Ufficio, in presenza di contabilità formalmente corretta ma intrinsecamente inattendibile, in conseguenza al comportamento antieconomico del soggetto passivo, ha la facoltà di ricavare induttivamente, con il supporto di presunzioni semplici corroborate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza, il reddito del contribuente basandosi sulle incoerenze desumibili dai ricavi dichiarati rispetto a quelli arguibili dalle modalità di esecuzione dell’attività sviluppata, attribuendo al contribuente l’incombenza di esibire la prova contraria comprovando la correttezza della tesi rappresentata (Cassazione, sentenze 24758/2016 e 18229/2016 ).
Al contrario nel caso di contestazioni per abuso di diritto l’articolo 10-bis, comma 9, della legge 212/2000 dispone che «l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva».
La questione tuttavia appare di mera chiarificazione in quanto si ritiene assodato che la dimostrazione dei presupposti di applicazione di una disciplina impositiva, in questo caso rappresentati dalla configurabilità di un’operazione elusiva, competano all’Ufficio.
Nei casi afferenti l’elusione, non vi è contestazione relativamente all’esistenza dei “fatti” e pertanto delle iniziative che avrebbero generato un beneficio tributario ingiusto. È opportuno ricordare che in merito esclusivamente ai fatti è possibile correlare l’onere della prova. In tema di abuso del diritto ciò che viene contestato è rappresentato dall’ottenimento di un vantaggio tributario indebito, il quale rappresenta una mera valutazione dei fatti. Il contenzioso che si instaura tra Ufficio e contribuente raramente si incentra sul fatto e quindi su operazioni che avrebbero generato il presunto vantaggio indebito, ma bensì sulla loro interpretazione.
Risulta pertanto davvero ipotetico l’ambito per stabilire gli oneri di prova - intesa come regola decisoria del fatto incerto - in materia di abuso del diritto, posto che in un contenzioso afferente l’elusione il problema non è quello di accertare la verità dei fatti ma bensì di valutarli.
L’onere di allegazione rappresenta pertanto uno svincolo essenziale del processo tributario in tema di elusione, nel quale i fatti allegati delimitano il giudizio di valutazione sui medesimi. In questo modo, vi sono ben pochi spazi per una presunta rilevazione d’ufficio dell’abuso del diritto, per cui appare anche in questo caso pleonastica la previsione contenuta nello stesso articolo 10-bis.
Cassazione, sentenza 11855/2017