Non profit, confini più stretti per le esenzioni Imu e Tasi
Dalla Cassazione arriva un pesante colpo di piccone alle regole dell’Imu per il non profit, nate a inizio 2012 per sostituire le vecchie esenzioni affondate dalle obiezioni Ue. I colpi della Suprema Corte si rivolgono diretti al Dm 200/2012, quello con cui il ministero dell’Economia ha tracciato il confine fra le attività commerciali, quindi paganti, e quelle «svolte con modalità non commerciali», e quindi esenti.
Quel decreto, scrivono i giudici nell’ordinanza 10124/2019, «non ha valore di legge», perché la norma (articolo 91-bis del Dl 1/2012) «non demandava al decreto ministeriale il compito di definire autoritativamente il concetto di “modalità non commerciali”, ma solo il compito di stabilire modalità e procedure da seguire in caso di utilizzazione mista di un immobile, al fine di individuare il rapporto percentuale tra utilizzazione commerciale e utilizzazione non commerciale dell’immobile stesso». Tradotto: la linea che separa paganti ed esenti non può essere quella scritta nel decreto. Perché, chiariscono ancora i giudici nell’ordinanza, va ritenuta «commerciale» qualsiasi «attività organizzata per la prestazione di servizi a terzi dietro pagamento — da parte dell’utente o di altri, compresi lo Stato, le regioni o altre pubbliche amministrazioni - di un corrispettivo funzionale ed adeguato alla copertura dei costi e alla remunerazione dei fattori della produzione».
Che cosa significa, in pratica? Il «niet» della Cassazione punta prima di tutto al criterio ministeriale che etichetta come «esente» tutta la sanità privata, a patto che sia «accreditata, contrattualizzata o convenzionata» con il servizio nazionale. In base alle regole ministeriali, fin dalla circolare 2/2009 del dipartimento Finanze ripresa in modo fedele dal Dm 200/2012, la sanità privata convenzionata non paga l’imposta sul mattone in quanto la sua attività si sviluppa «in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico». Ma per i giudici non è quella la strada da seguire, perché il criterio è un altro e ha carattere generale: quando la tariffa serve a coprire i costi e finanziare gli investimenti, l’attività è commerciale e l’Imu/Tasi va pagata.
Un parametro di questo tipo colpisce senza dubbio anche un altro settore, quello della scuola. In quel caso, il discrimine fra attività commerciali e non è dato dal costo standard per studente (si va dai 5.739,17 euro annui per la scuola dell’infanzia ai 6.914,31 euro per le superiori). Se la tariffa media chiesta è inferiore a quel valore, la scuola non paga l’Imu. Anche questo criterio è estraneo al principio indicato dalla Cassazione. Ed è fissato dalle istruzioni al modello di dichiarazione Imu per gli enti non commerciali, cioè in un atto che nella gerarchia delle fonti è ancora più in basso del decreto ministeriale censurato dai giudici. Ma più in generale, la pronuncia rimette in discussione tutta l’architettura delle esenzioni nel non profit: anche quelle, come accade per esempio nel settore alberghiero, che considerano in automatico «simbolica» una tariffa che non superi il 50% della richiesta media praticata nella zona omogenea. Un altro parametro generale, fissato per Dm e non per legge, e contrario al criterio indicato dai giudici.
Ancora una volta, insomma, i giudici aprono una falla nell’impianto del fisco locale. Una falla che solo una norma può chiudere: perché con l’ordinanza in mano saranno molti i Comuni a ripensare le esenzioni sul proprio territorio e ad avviare accertamenti su attività finora considerate esenti.
Corte di Cassazione, ordinanza 11 aprile 2019, n. 10124