Imposte

Non profit, per l’esenzione la Ue chiede il test concorrenza

La modifica al Dl 146 non ha tenuto conto delle condizioni europee. Il rinvio della norma permetterebbe di evitare un recepimento inadeguato

La modifica del regime Iva per gli enti associativi - introtta nella conversione del Dl 146/2021 - non è una opzione ma una strada obbligata per non incappare nella procedura di infrazione avviata dalla Ue ormai a partire dal 2009. Come segnalato (si vedano gli articoli nello speciale dedicato al decreto fisco lavoro), l’inquadramento in campo Iva dei classici corrispettivi ricevuti da associati, partecipanti e iscritti, unitamente ad alcune entrate più rappresentative, come quelle derivanti dalla somministrazione di alimenti e bevande, risponde a una precisa contestazione della Commissione europea. Con questa dovrà fare i conti il legislatore nell’auspicata opera di restyling della norma che ha provocato non poche contestazioni da parte del mondo non profit.

Secondo la Ue, dunque, non è sufficiente che l’ente non persegua finalità di lucro né che l’attività venga rivolta all’interno nei confronti dei soli associati. Il requisito soggettivo che fa scattare l’inquadramento in campo Iva è il carattere obiettivamente economico dell’attività. In queste circostanze secondo la direttiva, se si tratta di organismi senza fini di lucro, potrebbe al più scattare il regime di esenzione, purché non provochi distorsioni alla concorrenza (articolo 132 della direttiva 112/2006). Questo il criterio generale da cui ha preso le mosse il legislatore nazionale nel testo prodotto dall’emendamento approvato nel decreto fiscale.

Tuttavia ci sono ancora numerosi profili che sembrano richiedere un ulteriore raccordo con quanto indicato dall’Europa e, cosa più importante con quanto indicato dalla direttiva Iva. In effetti, il legislatore nazionale ha provveduto a rivedere l’articolo 4 del Dpr 633/72, espungendo dallo stesso quelle regole che sul piano soggettivo determinavano l’esclusione dal campo dell’applicazione dell’Iva per le attività svolte da alcuni operatori tassativamente elencati dalla disposizione stessa (quali associazioni politiche, sindacali e di categoria). Inoltre, sempre nell’articolo 4 il legislatore ha provveduto ad ampliare le operazioni in ogni caso commerciali estendendole anche ad alcune attività svolte dai soggetti in questione. Infine ha integrato l’articolo 10 trasferendo alcune previsioni prima contenute nell’articolo 4 e determinando, quale effetto immediato che quelle attività che erano prima escluse divenissero alle medesime condizioni (o quasi) esenti. Purtroppo, come detto, le condizioni previste dall’infrazione unionale non prevedono solo lo spostamento delle operazioni prima escluse tra le esenti, ma impongono una serie di limiti che oltre a dover essere correttamente trasposti devono essere anche correttamente declinati.

In particolare, tra gli altri requisiti richiesti dalla Ue, l’infrazione impone che le operazioni aventi finalità pubblica che, in quanto tali, si possono considerare esenti, debbono essere riconducibili a una delle ipotesi di cui all’articolo 132 della direttiva 2006/112/Ce. Proprio questo riferimento non sembra del tutto rispettato dalla norma, in quanto nelle previsioni ora contenute nel novellato articolo 10, non compaiono tutte le ipotesi previste dall’articolo 132 della direttiva (si vedano, a titolo d’esempio, le considerazioni fatte nell’altro commento qui pubblicato per quanto riguarda le attività relative allo sport).

Quindi sul piano della trasposizione delle norme bisognerebbe fare quello sforzo, che forse non era stato fatto in origine, di concordare adeguatamente la norma nazionale a quella unionale.

Sempre sul piano delle prescrizioni unionali il legislatore introduce anche un corretto riferimento al fatto che le operazioni si possono considerare esenti solo se non alterino la concorrenza. Sotto questo profilo è necessario che la norma nazionale declini meglio l’operatività della condizione per evitare il sorgere di contestazioni e contenziosi.

È chiaro che le considerazioni fatte costituiscono solo dei primi spunti sostanziali per considerare seriamente uno spostamento al 2023 della modifica per evitare che la norma nasca già con delle nuove incompatibilità con l’ordinamento unionale.

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