Per le controllate estere passive income test da definire
Con il decreto di recepimento delle direttive Atad (Dlgs 142/2018), disciplina Cfc conforme allo standard imposto dagli articoli 7 e 8 della direttiva Atad I. La riforma elimina la tradizionale bipartizione delle regole Cfc in «black e white», adottando un modello che è in larga parte simile a quello della «Cfc white».
In linea con la precedente normativa «Cfc white», il decreto Atad prevede due condizioni affinché il soggetto controllato estero sia attratto nella disciplina in esame: un tax rate test e un passive income test. Questa seconda condizione è soddisfatta se oltre un terzo dei proventi realizzati dal soggetto estero rientra in una delle sette categorie specificamente elencate dal nuovo comma 4, lettera b), dell’articolo 167 Tuir.
Posto che le nuove regole Cfc ricalcano in ampia misura la previgente disciplina, è ragionevole attendersi che, nell’interpretare le nuove norme, l’agenzia delle Entrate si rifaccia alle indicazioni fornite in merito alla vecchia normativa «Cfc white». Per quanto più precisamente attiene al passive income test, l’Agenzia ha ritenuto che debbano considerarsi rilevanti anche i proventi (lordi) da valutazione che risultano dal conto economico della controllata estera, ivi inclusi, purché fiscalmente rilevanti, quelli imputati direttamente a patrimonio netto, per effetto della corretta applicazione dei principi contabili Ias/Ifrs.
È dubbio se tale interpretazione resti valida, a fronte del nuovo passive income test. Benché concettualmente simile a quello della disciplina «Cfc white», il nuovo passive income test presenta importanti differenze testuali; infatti, mentre il precedente comma 8-bis richiedeva che i soggetti esteri avessero «conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento» in asset passivi, la nuova norma utilizza un termine («realizzati») che nel sistema tributario è generalmente inteso come non comprensivo di proventi meramente valutativi. Una lettura restrittiva, che quindi escluda i proventi da valutazione dal passive income test superando la circolare 23/2011, potrebbe trovare sostegno nella circostanza che gli estensori della direttiva Atad, nell’utilizzare l’espressione «redditi non distribuiti», avevano come obiettivo quei redditi realizzati che potessero essere oggetto di distribuzione, anziché proventi spesso non distribuibili, quali quelli meramente valutativi.
Tuttavia, in senso contrario, si osserva che il comma 3 del richiamato articolo 7 della direttiva Atad I utilizza la più generica espressione «redditi ottenuti». Un’interpretazione estensiva, tale da ricomprendere anche i proventi da valutazione, potrebbe semmai giustificarsi in un’ottica di semplificazione. Una soluzione intermedia, che tenga conto dell’almeno originaria finalità «anti-deferral» della disciplina Cfc e del riferimento della direttiva Atad ai redditi non distribuiti, potrebbe consistere nel dare rilevanza, ai fini del passive income test, ai soli proventi da valutazione che non siano confluiti in riserve soggette a vincoli di distribuzione.
Il dubbio in merito alla rilevanza dei proventi da valutazione risulta ancora più evidente per eventuali investimenti della Cfc in titoli azionari dato che, in conformità a quanto previsto dalla direttiva Atad, l’elenco dei «tainted income» del novellato articolo 167 Tuir prevede soltanto «dividendi e redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni». Da un punto di vista letterale sarebbe, dunque, assai arduo sostenere la rilevanza di eventuali componenti positivi di conto economico della controllata estera che derivino da plusvalori non realizzati su partecipazioni, salvo che tali proventi valutativi possano essere inquadrati, per il soggetto non residente, nella diversa categoria dei «redditi da attività assicurativa, bancaria e altre attività finanziarie». Nel caso di proventi non realizzati su partecipazioni, pertanto, le eventuali esigenze di semplificazione difficilmente potrebbero conciliarsi con il testo normativo.