Controlli e liti

Per i ricavi fittizi l’onere della prova va al contribuente

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di Laura Ambrosi

I ricavi derivanti da fatture false non concorrono alla formazione del reddito dichiarato se direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi parimenti fittizi. Grava sul contribuente dimostrare la fittizietà di tali componenti e la loro correlazione rispetto ai costi falsi. A fornire questo principio è la Corte di cassazione con l'ordinanza 18390 depositata ieri.

L'Agenzia notificava alcuni avvisi di accertamento ad una società con i quali venivano rettificati dei costi perché riferiti ad operazioni ritenute oggettivamente inesistenti.

La contribuente proponeva ricorso dinanzi al giudice tributario eccependo, tra i diversi motivi, che in applicazione della nuova norma sui costi da reato tali fatture dovevano considerarsi deducibili fino all'ammontare dei ricavi fittizi fatturati e registrati.

Entrambi i giudici di merito, rigettavano il ricorso della società la quale ricorreva in Cassazione lamentando un'errata interpretazione della norma.

In base all'articolo 8, comma 2 del Dl 16/2012, ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi.

In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50% dell'ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi.

In sostanza, la norma stabilisce che i componenti positivi, relativi a fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, debbano essere ridotti alla stregua degli elementi passivi parimenti inesistenti e la sanzione amministrativa si applica sulla differenza.

La Suprema corte in proposito, dopo aver richiamato la norma, ha affermato che grava sul contribuente dimostrare la fittizietà dei componenti positivi che non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica perché direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi parimenti fittizi.

Il chiarimento è importante poiché normalmente per le contestazioni sui ricavi l'onere della prova è a carico dell'amministrazione. In proposito giova evidenziare che la disposizione di cui al comma 2 dell'articolo 8 intende, da un lato, colpire con una specifica sanzione pecuniaria l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e, dall'altro, salvaguardare il principio costituzionale della capacità contributiva: da un lato, infatti, la dichiarazione di ricavi fittizi, comporterebbe la tassazione di redditi mai conseguiti e dall'altro sarebbero tassati dei costi mai sostenuti perché ritenuti indeducibili.

L'Agenzia, con la circolare n. 32/E del 3 agosto 2012, sul punto ha precisato che in ossequio al principio di capacità contributiva, il legislatore ha inteso tener conto dell'inesistenza dei ricavi prevedendo la non imponibilità nei limiti dell'ammontare dei costi non ammessi in deduzione.

L'eventuale differenza dei componenti positivi dovrà così continuare a considerarsi imponibile. In concreto, in simili ipotesi, sulla differenza tra elementi negativi e positivi fittizi va applicata la sanzione dal 25 al 50%; la parte di ricavi eccedenti i costi fittizi va invece tassata in misura ordinaria.

Cassazione, ordinanza 18390/2018

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