Imposte

Presunte operazioni inesistenti: per la difesa non bastano le foto

di Marco Ligrani

Nel caso di accertamenti per operazioni inesistenti, al contribuente è chiesto di dimostrare l’effettività delle prestazioni fatturate. La falsità delle fatture, fondata su presunzioni gravi, precise e concordanti, può essere confutata esclusivamente facendo ricorso alla documentazione contrattuale che dimostri l’effettività delle prestazioni. Pertanto, la sola tracciabilità dei pagamenti non costituisce una prova valida ad escluderne la fittizietà, così come i rilievi fotografici, che non assicurano alcun collegamento diretto con le operazioni ritenute inesistenti. È questo, in estrema sintesi, il principio affermato dalla Ctp di Como 2/4/17 (presidente Spera, relatore Fadda), con la quale i giudici hanno rigettato il ricorso proposto da una società, cui era stato contestato l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

La vicenda muove da una verifica condotta dalla Guardia di Finanza, che aveva riscontrato, nella contabilità di una Srl operante nel settore dell’edilizia, la registrazione di alcune fatture ritenute fittizie, il cui ammontare elevato non si giustificava con le risorse - sia umane che materiali – a disposizione.

Sulla base del Pvc, l’agenzia delle Entrate notificava gli accertamenti per ciascuna annualità, con i quali venivano recuperati a tassazione sia i costi che l’Iva detratta.

Nell’impugnazione la società, tra i motivi di ricorso, rilevava l’infondatezza nel merito, producendo la documentazione idonea - a suo dire - a dimostrare l’effettività delle operazioni. In particolare, la Srl produceva gli assegni bancari utilizzati per il pagamento delle fatture e la documentazione fotografica che ritraeva i cantieri aperti in quegli anni, i quali avevano richiesto l’acquisto dei beni e servizi ritenuti inesistenti. La società, inoltre, sottolineava come il consulente dell’epoca non avesse restituito tutta la documentazione contabile.

I giudici lombardi, hanno – innanzitutto - ricordato che l’onere di provare la falsità della fatture ricade sempre sull’ufficio (ai sensi dell’articolo 2697 del Codice civile incombe su colui che intende far valere un diritto), che può adempiervi anche usando presunzioni gravi, precise e concordanti. A questo punto, sta al contribuente fornire la documentazione che dimostri il contrario, la quale, però, per poter essere ammessa, deve presentare un grado di attendibilità maggiore rispetto a quella utilizzata dal fisco.

Proprio su questo si è incentrato il ragionamento della Ctp. Richiamando la giurisprudenza della Cassazione (sentenze 12082/11 e 15228/01), il collegio ha ricordato che la tracciabilità dei pagamenti non serve a escludere che le somme possano essere retrocesse in altro modo e, pertanto, che sussista il meccanismo fraudolento ipotizzato dal fisco. Quanto ai rilievi fotografici, poi, non vi è certezza circa il loro riferimento proprio alle fatture contestate e non ad altre.

L’unica documentazione, hanno precisato i giudici, che avrebbe potuto dar ragione dell’elevato volume di costi, sarebbe stata quella di natura contrattuale e, pertanto, le scritture private e la corrispondenza, che attestassero gli ordini effettuati. Nel caso specifico, quindi, non solo quella contabile, non restituita per intero.

L’argomento non è nuovo nella giurisprudenza di legittimità: la Cassazione, ai fini probatori, ha precisato che occorre il contratto scritto anche quando sarebbe ammessa la forma orale (ordinanza 6203/13).

Ctp di Como 2/4/17

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