Il CommentoControlli e liti

Prove, l’interpretazione adeguatrice è un dovere del giudice tributario

di Enrico De Mita

Con sentenza n. 10 dello scorso 31 gennaio la Corte ha confermato che una norma non si dichiara incostituzionale se di essa è possibile fornire un’interpretazione adeguatrice, conforme ai parametri costituzionali evocati. Nella specie ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1°, n. 2) Dpr 600/73, sollevata dalla Ctp di Arezzo in riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione (ordinanza 150/2021). La norma era venuta in rilievo nuovamente nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario. Ad avviso della Corte la disposizione censurata si sottrae alle censure mosse, in riferimento agli evocati parametri in tanto in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria.

In altre parole, come già riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità, il contribuente ha la facoltà di fornire la prova contraria «anche mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono prove e non meri argomenti di prova, sia perché la inammissibilità di uno strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge». L’incidenza percentuale dei costi relativi, se eccepita, va, detratta dall’ammontare dei prelievi non giustificati (225/2005). I giudici di merito e di legittimità continuano a interrogarsi sulla illegittimità della norma. Ma devono piuttosto farne una corretta applicazione in conformità con i parametri costituzionali. Il richiamo ai principi di ragionevolezza e capacità contributiva è rimarcato dalla sentenza in commento, perché una accentuazione così marcata del favor per il fisco deve essere bilanciata «da un regime della prova contraria da parte del contribuente, estesa a ogni presunzione semplice e integrata dalla deducibilità del fatto notorio». L’interpretazione adeguatrice impone che il contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova contraria presuntiva. Solo in tal modo la presunzione risulta compatibile anche con il principio di capacità contributiva (articolo 53, comma 1°, della Costituzione).Rimane, all’apparenza, la fondamentale labilità dell’opzione alla quale ancora oggi è ridotta l’interpretazione adeguatrice, non facilmente individuata e applicata.

Tale apparenza si scioglie, a ben vedere, nella diretta cogenza dei parametri costituzionali, a maggior ragione in un processo tributario che è connotato, sul piano probatorio, da una sua specificità, a sua volta discendente dal carattere impugnatorio che lo informa.

La sentenza 10/23 richiama il giudice tributario, a maggior ragione con la riforma di cui alla legge 130/2022, al potere e al dovere di far uso dei poteri riconosciutigli dall’articolo 7 del Dlgs 546/1992, in un contesto processuale di pienezza del contradditorio e di parità delle armi, quale proiezione del canone del giusto processo (articolo 111, commi 1° e 2°, della Costituzione (118/2000; 73/2022).

Lo stesso articolo 7, novellato, rappresenta una delle norme più incise dal riformatore. Una norma positiva chiara e immediata, al comma 5-bis dell’articolo 7, in nome dei principi costituzionali del giusto processo e del buon andamento dell’amministrazione, stabilisce che «l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati».

Lo spessore e l’ambito della prova contraria, alla luce del novellato articolo 7, guadagna un terreno nuovo e imprescindibile, in applicazione dei parametri costituzionali.

La Corte costituzionale ricorda, con la Cassazione (24422/18), che, in mancanza di un’espressa previsione e per via interpretativa, non è possibile limitare il principio di libertà delle prove, ritenendo che la prova contraria a una presunzione legale non possa essere costituita da una presunzione semplice.

Il richiamo all’interpretazione adeguatrice esprime la forza e, insieme, la debolezza, in concreto, della pronuncia 10/2023. Leggiamo, infatti, insieme alla Corte, che la questione è derivata proprio da un «malinteso interpretativo che ha ingenerato i dubbi della Ctp rimettente».

La constatazione conclusiva della Consulta è di una semplicità che disarma e allarma ad un tempo: si richiede, in definitiva, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice. Il danno sistemico e concorrenziale, sul piano imprenditoriale, prodotto da tali malintesi interpretativi, impone, anche in questo caso, una precisazione normativa, saldo ancoraggio contro ogni, sia pur solo apparente, precarietà opzionale. Perché il rispetto dei principi costituzionali non può rappresentare un’opzione interpretativa ma rappresenta una cogenza normativa.

ha collaborato Francesco Cesare Palermo