Quei vincoli da non dimenticare per tassare l’economia digitale
L’Italia è impegnata da qualche anno nella elaborazione di modelli impositivi indirizzati al mondo digitale in attesa di soluzioni concordate a livello internazionale.
Coperto parzialmente il settore delle transazioni su piattaforme multiparte tipo Airbnb con una ritenuta sui canoni delle locazioni brevi, quello delle scommesse on-line (puntando sulla combinazione stabile organizzazione/ritenuta) e, non strutturalmente, quello degli Ott (over the top) con la web tax transitoria, è di nuovo il turno dei servizi pubblicitari resi dalle multinazionali del web – peraltro già strutturalmente coinvolti dalla legge di stabilità 2014 - posto che, a quanto è dato sapere, il Governo starebbe oggi pensando ancora a una ritenuta.
Vi è la consapevolezza che la tassazione del digitale è tema che richiede interventi diversificati a seconda del tipo di operatore e della transazione coinvolta. Per avere un’idea della varietà del mondo digitale si considerino, ad esempio, oltre alle ricordate transazioni su piattaforme multiparte ed alla pubblicità on line su portali ad accesso gratuito, le vendite mediante app store, le transazioni commerciali in cloud computing e quelle con criptomonete (bitcoin). La complessità del mondo digitale è tale che in taluni casi non è nemmeno semplice individuare chi effettua l’operazione e chi la richiede.
Il dato di partenza, comunque, è che l’attuale sistema di regole fiscali è inadeguato. Le proposte di intervento sul tappeto sono numerose ed in genere riguardano in modo parcellizzato singole aree della digital economy. Tra le più note ed autorevoli quelle di Franco Gallo, di Mauro Maré (il quale, se non erro, sponsorizza l’intervento delle imprese Telco e il ricorso al contatore digitale) e di un gruppo di lavoro dell’Associazione Italiana dei Professori di diritto tributario (diretto da Lorenzo Del Federico).
Quel che deve essere chiaro nell’approcciare il problema della tassazione del digitale è che si tratta di un mondo che oramai coinvolge qualunque industry.
Cosicché una volta individuati i diversi settori del digitale su cui intervenire, nell’ipotizzare efficienti modelli di imposizione, occorre muovere da una serie di condizionamenti negativi che impattano sulla costruzione di qualsivoglia web tax (imposta sul reddito, di consumo, bit tax, digital tax, equalization levy, diverted profit tax, eccetera). Trattasi di vincoli che derivano, tra l’altro:
• dalla disciplina Iva della direttiva rifusione, che impedisce duplicati dell’imposta sulla cifra d’affari;
• dalle norme euro-unitarie sulle libertà fondamentali (diritto di stabilimento in primis);
• dalle norme convenzionali, che in tema di stabile organizzazione prevalgono se più favorevoli al contribuente su quelle domestiche, rendendo pressoché inutile per i Paesi convenzionati la confezione di nozioni interne di stabile organizzazione più ampie di quelle contenute nei trattati (ad esempio quella «virtuale» e quella «occulta» relativa alle proposte di legge Quintarelli ed altri e Mucchetti);
• dai principi costituzionali di uguaglianza sostanziale (l’introduzione di un collegamento territoriale del tipo «presenza economica significativa» può creare possibili discriminazioni con le imprese che operano all’estero con branch) e di capacità contributiva (è tollerabile nel nostro ordinamento un tributo che finisca con l’attribuire rilevanza ad un elemento, per esempio il bit, in sé per nulla dimostrativo di forza economica e che, in assenza di adeguati correttivi, rischia di essere scaricato sul consumatore finale ?);
• dalla most-favoured nation clause dell’Omc.
Se si vuole intervenire seriamente a livello domestico sul tema della tassazione del digitale senza attendere la comunità internazionale e i propri partner europei occorre tener conto in primo luogo di tali condizionamenti negativi.