Imposte

Ravvedimento Iva, detrazione in salvo

di Matteo Balzanelli e Massimo Sirri

La condizione formale rappresentata dal possesso della fattura, insieme alla sussistenza del presupposto sostanziale dell’esigibilità dell’imposta (requisiti individuati dalla circolare n. 1/E/2018), non solo consente di alleviare, almeno in parte, la questione della riduzione dei termini per l’esercizio della detrazione, ma permette di risolvere anche il problema della detrazione dell’imposta addebitata dal fornitore che si accorga di eventuali errori, anche a seguito di controllo, ma prima di ricevere l’accertamento. In effetti, mentre il recupero dell’Iva accertata è regolato direttamente dall’articolo 60, comma 7, del Dpr 633/1972, il quale, da un lato, consente al soggetto verificato di addebitare l’imposta o la maggiore imposta pagata (sempre che siano stati versati anche gli interessi e le sanzioni), e, dall’altro lato, permette al cessionario/committente la detrazione dell’Iva in rivalsa, al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto il tributo al fornitore (termine invariato anche dopo le modifiche apportate all’articolo 19 del decreto Iva, come chiarito dalla citata circolare n. 1/E), nulla è invece previsto per il caso in cui l’imposta, anziché a seguito d’accertamento, sia addebitata spontaneamente dal cedente/prestatore che si avveda dell’omissione o dell’errore, magari ricorrendo al ravvedimento operoso.

In queste situazioni, infatti, chi riceveva una fattura o una nota di variazione in aumento, poteva vedersi contestata la detrazione dell’Iva addebitata in rivalsa, nel presupposto (errato) che fossero scaduti i termini per l’esercizio del diritto, in quanto “legati” (unicamente) all’esigibilità dell’imposta e non anche al possesso del relativo documento. Una simile impostazione, alla luce dei recenti chiarimenti delle Entrate, non dovrebbe più essere possibile, dato che la detrazione viene inequivocabilmente agganciata (anche) alla disponibilità della fattura (o della nota d’addebito), oltre che alla nascita del correlato diritto, coincidente, in linea generale, con quello in cui sorge l’esigibilità dell’imposta. E siccome tale concetto, come riconosce l’amministrazione finanziaria, si fonda su una corretta applicazione delle norme comunitarie in materia (articoli 178 e 179 della direttiva n. 2006/112), così come delineata dalla Corte Ue (sentenza C-152/02), ne deriva che questa avrebbe sempre dovuto essere la corretta interpretazione della disciplina del diritto di detrazione.

Eventuali contestazioni sul punto, pertanto, andrebbero risolte ammettendo la possibilità di detrarre l’imposta addebitata tardivamente, potendosi semmai (ma questo spetterebbe al legislatore) subordinare tale diritto all’effettivo versamento da parte del fornitore, sulla falsariga di quanto prevede l’articolo 60, comma 7, del Dpr 633/1972 per la rivalsa dell’Iva accertata. Del resto, coerenti con questo orientamento sono anche le più recenti conclusioni dei giudici europei (sentenza 21 marzo 2018, C-533/16), i quali hanno confermato la possibilità di recuperare il tributo (mediante rimborso, nella fattispecie) una volta scaduti gli ordinari termini di decadenza per azionarne il diritto, qualora l’addebito dell’imposta di cui si domanda la restituzione consegua alla regolarizzazione posta in essere dal fornitore (che ha eseguito il versamento dovuto) e, dunque, in un caso in cui il requisito formale (possesso della fattura) è verificato solo a seguito di detta regolarizzazione.

D’altra parte, le ragioni erariali paiono sufficientemente tutelate dal fatto che l’operatore che non ha ricevuto la fattura (o l’ha ricevuta irregolare) e non ha provveduto a regolarizzare l’operazione (ai sensi dell’articolo 6, comma 8, del Dlgs 471/1997), si espone comunque all’autonoma sanzione pari all’imposta non regolarizzata. Sommarvi l’indetraibilità dell’Iva applicata dal fornitore che si ravvede, violerebbe la neutralità dell’imposta.

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