Imposte

Sui redditi di capitale l’imposta sarà proporzionale

Obiettivo tassazione omogenea sui redditi finanziari e immobiliari. Resta il nodo delle minusvalenze indeducibili

di Marco Piazza

Lo schema di legge delega della riforma tributaria approvato dal Governo tratta anche la tassazione dei redditi derivanti dall'impiego di capitale nell'ambito del più ampio tema dell'imposizione personale sui redditi.

Il modello duale

Il modello prescelto è quello della “tassazione duale” secondo il quale i redditi da investimento (immobiliare o finanziario) devono essere assoggettati ad una imposta proporzionale mentre quelli da lavoro devono essere assoggettati ad imposta progressiva. La tassazione “secca” dei redditi di natura finanziaria è giustificata non solo dalla necessità di affidare la riscossione “alla fonte” agli intermediari finanziari, ma anche dal timore che la tassazione progressiva possa incentivare la delocalizzazione degli investimenti o l'impiego di strutture “opache”.

La tassazione duale non è una novità. L'attuale sistema già presenta questa caratteristica sia per i redditi di natura finanziaria sia per gran parte di quelli di natura immobiliare (ci si riferisce alla cedolare sugli affitti e sulle plusvalenze di terreni e fabbricati). La tassazione proporzionale non è, però omogenea. La cedolare sugli affitti, ove applicabile, è del 21% (10% per gli affitti a canone concordato), mentre quella sui redditi finanziari e sulle plusvalenze immobiliari è del 26 per cento. Poiché secondo la delega le due tipologie di reddito dovrebbero essere assoggettate alla medesima aliquota proporzionale, ci si attende che venga adottata una percentuale intermedia che dovrebbe, secondo alcuni, coincidere con lo scaglione minimo Irpef.

Secondo la delega, l'aliquota proporzionale dovrebbe applicarsi anche sui redditi direttamente derivanti dall'impiego del capitale nelle attività di impresa e di lavoro autonomo svolte dai soggetti ai quali non si applica l'Ires. L'indirizzo non è meglio definito. Sarà il legislatore delegato a dare contenuto al principio, con l'auspicio che non vengano introdotti meccanismi troppo complessi (come è accaduto per il regime opzionale Iri r per la mini-Ires).

Gli interventi sulla tassazione dei redditi finanziari non dovrebbero però limitarsi ad un ritocco delle aliquote.

Il punto di partenza

L'attuale impianto risale alla riforma Visco del 1997 e, pur essendo in gran parte ancora valido, ha perso molto della sua primitiva coerenza non solo a causa della continua evoluzione del catalogo dei prodotti finanziari, ma anche perché, con il tempo, si sono esacerbati gli effetti di alcuni suoi limiti di fondo.

Gli intermediari finanziari, nel loro ruolo di responsabili o sostituti d'imposta, fanno sempre più fatica a spiegare le ragioni del proprio operato ai clienti che spesso, vedendosi addebitare imposte su redditi che non hanno conseguito, pensano che sia la banca ad aver sbagliato, mentre invece all'origine c'è una scelta del legislatore.

La caratteristica del sistema più difficile da comprendere è l'impossibilità di dedurre le minusvalenze (derivanti dalla cessione a titolo oneroso e, tranne che per le partecipazioni, dal rimborso del titolo nonché dall'operatività in derivati) dai redditi di capitale (interessi, compresi gli scarti di emissione; dividendi; proventi periodici da rimborso e da cessione dei fondi comuni d'investimento mobiliari, proventi periodici e da rimborso dei fondi immobiliari, proventi dei prodotti di investimento assicurativo e altri proventi derivanti dall'impiego di capitale).

Ai tempi della riforma Visco gli effetti del fenomeno erano trascurabili perché i redditi dei prodotti finanziari erano prevalentemente soggetti all'imposta sostitutiva del 12,5 per cento. Oggi, però, come si è detto, l'aliquota ordinaria è del 26% (quella del 12,5% è rimasta, in sostanza, solo per gli investimenti in titoli pubblici). Accade così che, soprattutto quando gli investimenti sono costituiti prevalentemente da fondi comuni d'investimento, la reale incidenza della fiscalità può diventare molto elevata.

Un caso frequente è quello individuato nell’esempio presentato nella scheda qui sotto. In queste situazioni l'interessato (che percepisce il fenomeno come ingiusto) è spesso indotto ad investire in strumenti finanziari complessi (costituiti da una combinazione di contratti derivati) che - pur fornendo una parziale garanzia del capitale e corrispondendo redditi periodici, anche se incerti nell'ammontare – sono, per prassi consolidata, trattati come “strumenti finanziari derivati” (che generano “redditi diversi”) e non come “titoli atipici” (i cui proventi, invece, costituiscono “redditi di capitale”). In questo modo, l'investitore si precostituisce le “plusvalenze” da compensare con le “minusvalenze” riportate a nuovo.

La giustificazione

La non deducibilità delle minusvalenze da redditi di capitale viene, in genere, giustificata richiamando una norma di sistema: l'articolo 45, comma 1 del Testo unico, il quale - occupandosi appunto della determinazione dei redditi di capitale - precisa che sono costituiti dagli interessi, utili e altri proventi percepiti nel periodo d'imposta “senza alcuna deduzione”. Ma la norma citata intende evitare che sia possibile dedurre dal reddito gli interessi passivi (solo quelli di cui all'articolo 15 del Testo unico danno diritto a limitate detrazioni), non certo produrre gli effetti distorsivi sopra descritti.

Un intervento che ammetta la deducibilità delle minusvalenze dai redditi di capitale è probabilmente ostacolato dal timore che abbia ripercussioni sul gettito fiscale.

Ma si possono individuare diversi modi per preservare la filosofia di fondo della legge evitando allo stesso tempo che tale filosofia produca effetti illogici ed impatti non sostenibili sul gettito. Uno di questi potrebbe essere quello di consentire, come ormai accade in molti campi, di trasformare le minusvalenze realizzate, ma non utilizzate in compensazione di plusvalenze, in “crediti d'imposta” disciplinandone l'utilizzo in modo compatibile con le esigenze di gettito.

L’ESEMPIO

Se un investitore (non imprenditore) ottiene il rimborso di due fondi d'investimento realizzando per il primo una perdita di 1.000 e per il secondo un reddito di uguale importo, pur non avendo conseguito alcun guadagno effettivo realizzerà un reddito di capitale di 1.000 (tassabile di norma con l'imposta sostitutiva del 26%) e contemporaneamente una minusvalenza di 1.000.

La minusvalenza (salvo che in presenza di opzione per il risparmio gestito) non è compensabile con il reddito di capitale, ma è riportabile nei quattro anni successivi potendo essere dedotta da successive plusvalenze realizzate. Consegue che l'investitore sconta immediatamente l'imposta sostitutiva sul provento del primo fondo e conserva l'aspettativa di utilizzare la minusvalenza in futuro.

Il problema è, però, che allo stato attuale gli investimenti che consentono di “sfruttare” la minusvalenza sono solo quelli più rischiosi (azioni e derivati); se l'investitore mantiene la strategia di detenere fondi comuni (scelta meno rischiosa), la minusvalenza andrà inevitabilmente perduta.

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