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Rivalutazione partecipazioni, dalle Entrate un passo avanti

Sul leveraged cash out la risposta a interpello 242 ha superato aspetti critici

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di Riccardo Michelutti e Luca Rossi

Il faticoso cammino verso una chiara delimitazione dei confini dell’abuso del diritto con riguardo alle operazioni di leveraged cash out ha segnato una nuova tappa con la risposta ad interpello 242 del 5 agosto 2020, che ha il merito di superare per alcuni rilevanti aspetti la precedente risposta 341/2019, pur fornendo ancora un esito non del tutto soddisfacente su altre questioni (si veda «Il Sole 24 Ore» del 15 e del 21 ottobre).

La messa a fuoco del leveraged cash out con la lente dell’abuso del diritto ha preso le mosse dal principio di diritto 20/2019, che stigmatizzava gli effetti della rivalutazione delle partecipazioni non quotate da parte di persone fisiche per porre in essere operazioni di sostanziale cessione a se stessi, mediante il reinvestimento del ricavato nel veicolo societario (newco) utilizzato per l’acquisto delle partecipazioni rivalutate. La circolarità delle operazioni trovava evidenza nel fatto che i soci cedenti mantenevano una partecipazione nella target (post-fusione con newco) dotata di particolari poteri di governance.

A diverse conclusioni perveniva invece la risposta 341/2019, a fronte di un’operazione volta a realizzare il passaggio generazionale dai soci fondatori ai figli, che già partecipavano alla società target in posizione di minoranza, mediante cessione delle partecipazioni rivalutate ad una newco detenuta dai figli. In tal caso veniva affermato che anche per i soci che cedevano effettivamente le partecipazioni rivalutate alla newco senza alcun reinvestimento l’operazione di confronto dovesse essere il recesso tipico, che dà origine a redditi di capitale per i quali la rivalutazione non ha effetto, rispetto a quello atipico che avviene con la cessione delle partecipazioni agli altri soci.

Con riguardo ai soci che cedono le partecipazioni senza reinvestimento, la recente risposta 242/2020 ha il merito di superare la criticabile conclusione tratta nella risposta 341/2019, riconoscendo che il recesso atipico, anche se avviene mediante cessione agli altri soci e non già a soggetti terzi, costituisce l’operazione fisiologica per la fuoriuscita definitiva dalla compagine sociale, non integrando alcun vantaggio fiscale indebito ma rappresentando invece un fisiologico utilizzo dello strumento giuridico della rivalutazione delle partecipazioni.

Purtroppo, invece, l’Agenzia persiste nel censurare la situazione in cui i soci cedenti reinvestono, anche in parte ed in posizione minoritaria, nel veicolo societario che effettua l’acquisto delle partecipazioni rivalutate, ritenendo che in questo caso l’operazione fisiologica debba essere sempre il recesso (parziale) tipico.

Nella risposta 242/2020 vi erano tra gli altri tre soci cedenti che avevano cumulativamente il 61% della società e che reinvestivano nella società acquirente cumulativamente il 15 per cento. Poiché ciascuno dei tre soci in parte cedeva ed in parte reinvestiva, le cessioni da essi compiute per la parte equivalente ad un recesso tipico (ossia per la parte effettivamente ceduta, 46% nell’esempio) era ritenuta abusiva.

La conseguenza cui si giunge in questo caso non è affatto ragionevole: a parità di risultato, ove a cedere fossero stati soltanto due soci per la loro intera quota, pari al 46%, l’operazione sarebbe stata pienamente legittima, pur dando luogo allo stesso effetto ritenuto abusivo.

A fronte dell’apprezzabile passo avanti compiuto con la risposta 242, l’ulteriore passaggio logico deve essere quello di riconoscere che per la partecipazione effettivamente ceduta dal socio (a terzi o agli altri soci) la rivalutazione è del tutto legittima, senza costringere a seguire necessariamente una procedura di recesso tipico (a prescindere dal fatto che nella più parte delle situazioni analizzate erano assenti i requisiti legali o statutari per il recesso, tipico o atipico che sia).

Ciò posto, si consideri ora il seguente esempio, tratto dalla prassi delle operazioni di Lbo. L’investitore terzo compra mediante una newco il controllo (ad esempio l’80%) della target, e richiede, per allineamento di interessi, che i cedenti coinvestano con una quota di minoranza (ad esempio, il 20%). In tal caso, essendo l’operazione effettuata con l’utilizzo della leva finanziaria e richiedendo le banche finanziatrici che la società acquirente sia fusa quanto prima con la target, è usuale che i soggetti venditori dopo aver rivalutato le partecipazioni cedano il 100% della target alla newco per poi reinvestire nel capitale di newco un importo pari al 20% post-indebitamento. Questa operazione non può essere ritenuta elusiva, in quanto da un lato comporta un effettivo change of control della target, in applicazione dell’articolo 2501-bis del Codice civile, dall’altro lato lo stesso risultato si otterrebbe cedendo non tutte le partecipazioni detenute nella target, ma una percentuale tale per cui, dopo aver effettuato la fusione (e quindi post-indebitamento), il cedente detenga tramite il concambio una percentuale pari al 20 per cento.

Risulta quindi evidente che in realtà il soggetto venditore non sta affatto cedendo a se stesso le partecipazioni rivalutate, potendo anzi effettuare una rivalutazione parziale della sola quota-parte effettivamente ceduta al terzo investitore, oltretutto con un risparmio dell’imposta sostitutiva complessivamente dovuta rispetto alla cessione integrale.

In conclusione, non vi è motivo per confinare il giudizio di non elusività al solo caso di newco costituita da un investitore terzo, posto che la circolarità dell’operazione viene meno ogniqualvolta si dia luogo ad un effettivo change of control della target (a favore di terzi o dei precedenti soci minoritari), come ben evidenziato dal principio di diritto n. 20/2019.

Si auspica quindi che l’Agenzia torni sui propri passi, proseguendo nel lodevole tragitto interpretativo intrapreso con la risposta 242/2020.