Se i giudici alimentano il volume del contenzioso
Il processo tributario soffre di più di un male. Tanto che si parla ciclicamente di una rifoma organica. Ad acuire le difficoltà contribuiscono anche orientamenti giurisprudenziali che rischiano di appesantire il contenzioso.
Secondo la Corte di cassazione, per esempio, gli avvisi “bonari” sono impugnabili davanti alle commissioni tributarie pur non rientrando nell’articolo 19 che ha carattere tassativo. Essi esplicitano comunque le ragioni fattuali e giuridiche di una ben determinata pretesa tributaria, ingenerando così nel contribuente l’interesse a chiarire subito la sua posizione con una pronuncia dagli effetti non più modificabili. Ma non comportano, ove non impugnati, la cristallizzazione del credito. Questa conclusione discende dai principi costituzionali degli articoli 24 e 113 (diritto alla difesa) e dall’articolo 97 (buon andamento della pubblica amministrazione). Con questa giurisprudenza consolidata, la Cassazione (27949/2016) configura come atto d’imposizione l’avviso bonario e inventa un’altra ipotesi di ricorso alle commissioni tributarie che si affianca a quelle elencate dall’articolo 19.
Dal punto di vista pratico questa giurisprudenza ha incontrato l’approvazione dei contribuenti. Ma qui la giurisprudenza “creatrice” è andata oltre i limiti consentiti da un’interpretazione sistematica. L’avviso bonario, ove non contestato, non è idoneo a fondare la cristallizzazione del credito tributario; quindi non sarebbe atto d’imposizione. Il contribuente non è tenuto a impugnare gli atti bonari. L’impugnazione è facoltativa. Se il contribuente è interessato a chiarire la sua posizione ottiene una decisione non più modificabile. C’è una contraddizione: il ricorso del contribuente trasforma un atto che non è idoneo a cristallizzare il suo contenuto in un vero e proprio atto d’accertamento.
Ma c’è un’impostazione di carattere sistematico che risolve in radice il problema dell’impugnabilità dell’avviso bonario. L’articolo 54 bis del Dpr 633/1972, analogo all’articolo 36 bis del Dpr 600/1963, è preordinato alla correzione dell’imposta dichiarata. L’imposta corretta sulla base degli articoli citati non è imputabile all’amministrazione, ma al contribuente. Il controllo dell’esattezza dei versamenti passa attraverso una prima attività di controllo dell’amministrazione, sicché viene iscritta a ruolo non direttamente l’imposta dichiarata, ma quella passata al vaglio dell’amministrazione che potrà essere corretta solo ove ne ricorrano i presupposti.
L’attività di correzione è dunque un controllo automatico e generalizzato affidato agli uffici periferici dell’amministrazione e col ricorso a procedure automatizzate. Il risultato viene comunicato all’interessato con l’avviso bonario perché possa provvedere alla correzione degli errori formali e comunicare all’amministrazione dati ed elementi non considerati nella dichiarazione e valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi. Ciò al fine di assicurare un contraddittorio precontenzioso fra contribuente e amministrazione. I dati contabili risultanti dalla correzione si considerano a tutti gli effetti come dichiarati dal contribuente. L’imposta risultante dalla correzione è da considerarsi pertanto atto del contribuente; difatti, rispetto a essa si applicherà la sanzione per omesso versamento. Correttamente le commissioni tributarie di Milano di primo e secondo grado avevano negato l’impugnabilità dell’avviso bonario.
Da tutto ciò discende che l’impugnazione dell’avviso bonario che viene notificato al contribuente per assicurare il contraddittorio precontenzioso è un’invenzione della giurisprudenza che, sebbene ispirato a ragioni pratiche, non rispetta le previsioni legislative. E in Italia non c’è bisogno di moltiplicare i casi di contenzioso e alimentare l’alterazione delle leggi.