Controlli e liti

Sì all’analitico-induttivo quando la contabilità è inattendibile

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di Roberto Bianchi

Nell’ambito dell’accertamento del reddito di impresa, qualora la contabilità risulti essere complessivamente inattendibile, è legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo ex articolo 39 del Dpr 600/1973, in base agli elementi che permettano di accertare, in via presuntiva, i maggiori ricavi che possono essere quantificati calcolando la media aritmetica o ponderata dei ricarichi sulle vendite.
A tale conclusione è giunta la Corte di Cassazione attraverso l’ ordinanza 30785/2018 depositata in cancelleria il 28 novembre 2018.
A parere dei Giudici di piazza Cavour l’utilizzo della percentuale di ricarico si è rivelata legittima in quanto l’Ufficio, per la sua determinazione, ha preso le mosse dalla documentazione (seppure inattendibile) fornita dal contribuente, risultando del tutto irrilevante l’evento della messa in liquidazione della società, che si è verificato tre anni dopo la conclusione del periodo d’imposta accertato.
In relazione alla vicenda occorre procedere all’esame del dato normativo e, nel caso di specie, dal primo comma, lettera d) dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, il quale disciplina la metodologia analitico-induttiva, oltre che dal comma terzo dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993. In tema di accertamento del reddito di impresa, ove la contabilità appaia essere complessivamente inattendibile, risulta legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo, disciplinato dall’articolo 39 del Dpr 600/1973, sulla base di elementi che consentano di accertare, in via presuntiva, eventuali maggiori ricavi.
Il legislatore, nell’ordinario l’accertamento analitico - induttivo nei confronti degli esercenti imprese, arti o professioni, ha disposto che lo stesso possa basarsi anche «sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore».
Da ciò ne conseguirebbe che il 1° comma, lettera d) dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, così come il comma 3 dell’articolo 6 del Dl 331/1993, debbano essere letti nella maniera per la quale la metodologia analitico-induttiva possa essere azionata ogni qualvolta sussistano «gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore».
Le «gravi incongruenze» di cui al comma 3 dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, che evocano la rilevanza dello scostamento tra quanto dichiarato e quanto presunto, richiamano le presunzioni «gravi, precise e concordanti» di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973 e rappresentano, pertanto, esclusivamente un sintomo dell’asserita evasione commessa, da valutare e incasellare in un quadro probatorio dotato di obiettività e affidabilità che avvalori, per l’appunto, la menzionata «grave incongruenza».
Pertanto, sebbene corretto per tutto ciò che concerne l’interpretazione del dato normativo, il principio di diritto posto dalla Suprema Corte deve essere calato nella fattispecie concreta.
Al riguardo, non si può mancare di evidenziare come il collegio di legittimità abbia rappresentato in modo corretto un aspetto di notevole importanza, individuando le «gravi incongruenze», necessarie ai fini dell’innesco dell’accertamento analitico-induttivo, nella divergenza tra i ricavi dichiarati e quelli ricostruiti, come specificamente richiesto dalla littera legis.

Cassazione civile, sezione V, ordinanza 30785 del 28 novembre 2018

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