Sul denaro all’estero il sistema fa acqua
L’articolo 12 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78 stabilisce che gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute all’estero, salva prova contraria, si presumono costituite con proventi sottratti all’imposizione.
La tesi sul fatto ipotizzata dalla legge (ossia, che le attività estere siano state sottratte all’imposizione) è solo provvisoria: è vera, in altri termini, fino a quando il contribuente non ne fornisca una opposta credibile.
Ma quali caratteristiche deve avere la proposizione sui fatti contraria alla tesi di legge? Sul punto l’agenzia delle Entrate ha sempre preteso rigorosi riscontri documentali alle affermazioni di parte, sebbene, durante la collaborazione volontaria, ciò sia avvenuto, correttamente, con una certa attenuazione di quel rigore. E così, quanto più le attività estere sono rappresentate da beni documentati (ad esempio relazioni bancarie, partecipazioni, oro e immobili) tanto più sarà possibile ricostruirne l’origine e, nel caso, la non imponibilità in tutto o in parte.
Va da sè, per converso, che se i beni non sono documentati, come il denaro contante, che per natura ricusa la propria rilevazione, la tesi provvisoria della legge, in ragione della posizione interpretativa assunta dall’agenzia delle Entrate, finisce per diventare un giudizio definitivo. Cioè, laddove l’interessato avesse risparmiato in anni non più accertabili il proprio patrimonio (oppure se questo fosse in tutto o in parte derivato da fatti non imponibili), poiché non sarebbe in grado di offrire prove documentali dirette, l’impostazione officiosa finirebbe per sottrargli la possibilità di assolvere solo le imposte dovute.
Su questo punto considero, succintamente, tre prospettive di riflessione che tendono a mostrare l’inadeguatezza della prassi amministrativa ricordata.
La prima: vi sono modelli razionali di conoscenza (attinti dalla scienza epistemologica) che consegnano risultati massimamente attendibili e, per questa via, indubbiamente utilizzabili anche dall’agenzia delle Entrate. Mi spiego meglio. La non imponibilità del denaro contante (il fatto ignoto) può essere conosciuta sulla base di una narrazione che – a prescindere da documenti diretti – collega “tracce” (quelle lasciate dalla condotta del soggetto che ha agito) all’interno di un sistema razionale (deduttivo e/o induttivo) capace di dimostrare che la non imponibilità sia l’ipotesi più attendibile. Oltre al diritto penale e quindi alla scienza giuridica, tali modelli di conoscenza sono adottati pressochè ovunque.
La seconda: non solo l’articolo 12, in rassegna, stabilisce affatto alcuna limitazione alla prova contraria (la “stenosi” dimostrativa è opera esclusiva delle mani amministrative e, per giunta, davvero poco dibattuta), ma bandire la prova non documentale avrebbe la conseguenza di un’illegittima metamorfosi: trasformerebbe la presunzione semplice che esiste nella legge in presunzione assoluta che non esiste; per modo che, quanto ai contanti, s’imporrebbe ingiustamente solo la tesi dell’imponibilità a priori delle somme.
La terza e ultima considerazione (molto pragmatica): mi domando come la collaborazione volontaria del denaro contante possa sedurre se, per ben che vada, verrebbe tassato di questo bene anche ciò che normalmente non sarebbe tassabile. Insomma, l’assenza di aperture amministrative sulla prova della non imponibilità del contante avrebbe l’effetto non già di accendere il procedimento premiale (lo auspichiamo tutti) ma, semmai il contrario, come farebbe la miccia bagnata collegata alla bomba.