Controlli e liti

Sull’esterovestizione resta la distanza con l’abuso del diritto

di Marco Tupponi


L’esterovestizione è definibile come una dissociazione tra residenza reale e residenza fittizia del soggetto passivo d’imposta. Il contribuente stabilisce formalmente all’estero la propria residenza (in ambito Ue o extra-Ue), mentre continua a operare stabilmente in Italia sotto forma di impresa o di persona fisica (privato cittadino).

L’obiettivo è quello di beneficiare del regime fiscale più favorevole vigente oltrefrontiera allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime fiscale nazionale e tale pratica rientra tra le fattispecie che possono configurare abuso del diritto. La Corte di Giustizia delle Comunità Europea ha più volte ribadito che, con riferimento alla libertà di stabilimento sancita dal Trattato UE, la «circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà». In particolare, l’insediamento in un altro Stato membro non comporta una pratica abusiva qualora la società sia ivi radicata, ossia svolga nel Paese straniero un’effettiva attività economica per una durata di tempo indeterminata.

Si configura invece un «abuso del diritto in ambito fiscale» qualora il contribuente ponga in essere una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto delle norme, conducano sostanzialmente alla realizzazione di indebiti vantaggi fiscali, identificabili e anche non immediati, ma realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Per essere abusiva è comunque necessario che l’operazione posta in essere dal contribuente, e che ha determinato l’indebito beneficio, conduca al medesimo risultato che si sarebbe realizzato adottando la «soluzione alternativa» ritenuta fiscalmente corretta.

Nel Dlgs 128/2015 e nell’articolo 10-bis della legge 212/2000 troviamo una clausola generale in materia di abuso del diritto. La disposizione prevede tre presupposti perché si configuri la fattispecie dell’abuso del diritto: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni poste in essere; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che detto vantaggio sia l’effetto essenziale dell’operazione.

Tali circostanze devono, peraltro, essere considerate come dei meri «segnali», non essendo di per sé stesse sufficienti per provare l’abuso del diritto, posto che l’operazione potrebbe comunque essere fondata su valide ragioni di natura extra fiscale.

A questo punto cerchiamo di comprendere cosa significa «abuso di diritto», la sua genesi e la sua ratio: il concetto può dirsi ormai pacificamente riconosciuto come principio generale nel diritto tributario europeo (che oltrepassa i confini delle imposte armonizzate) e va, di conseguenza, riconosciuto, almeno in via tendenziale, come principio generale anche nel diritto dei singoli Stati membri (cfr., per tutte, Cassazione, Sezioni unite, n. 30055 del 2008, secondo la quale il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo che trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione).

La teoria dell’abuso del diritto nasce in Francia, dopo la rivoluzione, e si diffonde rapidamente negli ordinamenti di tradizione romanistica, ma penetra soprattutto quello tedesco. Nell’ottica dell’abuso si ridiscutono i fondamenti della convivenza sociale, riconsiderando l’esercizio delle libertà, dei diritti, delle prerogative e delle facoltà, anche dalla prospettiva dell’inefficacia degli atti che ne sono conseguiti e del risarcimento del danno.

Nell’ordinamento italiano non esiste una norma generale anti abuso, ma solo specifiche disposizioni, quali quelle degli articoli 330 (abuso della potestà genitoriale), 833 (abuso di atti emulativi) e 2793 del codice civile (abuso della cosa ricevuta in pegno), dalle quali sarebbe assai difficile estrarre un principio di valenza significativa e di portata generale. Infatti la stessa Corte si è ispirata al «diritto tributario europeo», oppure ai «principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione». In relazione a tali principi acquista rilevanza il caso in cui la società esterovestita non sia stata dichiarata del tutto e quindi non risulti da nessuna documentazione obbligatoria, cosicché non sia possibile attribuirle una paternità domestica.

È del tutto sconosciuta al fisco italiano anche se è lo strumento per celare attività che, essendo imputabili a soggetti residenti in Italia, dovrebbero considerarsi italiane a tutti gli effetti, sia riguardo la bilancia dei pagamenti e la posizione patrimoniale sull’estero dell’Italia, sia la capacità contributiva e quindi del prelievo fiscale.

L’effettiva titolarità delle attività finanziarie e/o patrimoniali a essa facente capo è stata semplicemente celata; e l’averla celata rende massimo il risparmio d’imposta poiché permette al socio di riferimento sia di approfittare di un prelievo differenziale più vantaggioso in relazione all’attuale imposizione sui redditi delle società, sia di sottrarsi definitivamente a ogni altro prelievo nazionale, anche futuro e anche diverso da quello sui redditi, come per esempio il tributo successorio.

La Corte di cassazione richiama il principio di capacità contributiva in generale (articolo 53 della Costituzione), non tenendo in considerazione il confronto specifico fra il diverso trattamento tributario che i due Paesi, il nostro e quello di esterovestizione, disciplinano rispetto ai redditi delle società. Ignorando addirittura i collegamenti con il territorio che, nell’ambito delle norme dell’articolo 73, comma 3 e dell’articolo 5, comma 3, lettera c, del Tuir, o del diritto internazionale privato, identificano il luogo nel quale deve collocarsi la residenza del soggetto, ossia la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale.

Per la Cassazione il risparmio d’imposta al quale è indebitamente preordinato l’abuso è prevalente; di conseguenza diventa del tutto irrilevante il luogo nel quale deve considerarsi fiscalmente collocata la società in funzione dei collegamenti territoriali. La Corte ha ipotizzato che, nel diritto tributario (italiano), mancasse un principio generale antielusione e ha deciso d’introdurlo facendo leva sul concetto di abuso del diritto; probabilmente ispirandosi alla giurisprudenza statunitense che già nel secolo scorso elaborò il principio anti elusione del business purpose test, desumendolo dal mondo degli affari.

Conseguenza di questo ragionamento è stato il Dlgs 128/2015 che ha introdotto nello Statuto dei diritti del contribuente, approvato con la legge 212/2000, l’articolo 10-bis contenente la disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale.

Per approfondire:

Paradisi fiscali e casi di localizzazione delle società nei paesi a fiscalità privilegiata in Plus Plus 24 Fisco

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