Imposte

Terzo settore, su statuto e attività prevalenti la ricerca della non commercialità

di Gabriele Sepio

Gli enti non commerciali godono da sempre di un regime fiscale di favore in funzione della particolare meritevolezza delle finalità perseguite. Per questo il legislatore ne ha “decommercializzato” le attività istituzionali escludendo i proventi dalla formazione del reddito imponibile. Tuttavia in questo ambito, in attesa della imminente riforma del Terzo settore, occorre spesso districarsi tra un groviglio normativo che rende complesso il compito degli operatori.

Per capire quando l’attività istituzionale svolta è di carattere commerciale o meno occorre partire dalle previsioni statutarie e dalle attività prevalenti per raggiungere gli scopi istituzionali. Ce ne sono alcune la cui commercialità è però esclusa a priori ( articolo 143 del Tuir ): come, ad esempio, le attività diverse rispetto a quelle industriali dirette alla cessione di beni e prestazione di servizi, rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente e senza una organizzazione specifica. In tal caso è richiesta l’assenza dei connotati tipici della professionalità, sistematicità e abitualità (risoluzione 286/2007) che potrebbero ravvisarsi anche in presenza di unico affare (Cassazione 8193/1997). Inoltre, è richiesto che i corrispettivi ricevuti non eccedano i costi di diretta imputazione.

Il tenore dell’articolo 143 del Tuir ha creato non pochi contrasti in sede applicativa poiché non specifica se i requisiti sopra indicati debbano ricorrere congiuntamente e quali le conseguenza in mancanza anche di uno soltanto di questi.

Si pensi a quelle associazioni che pur nel perseguimento delle finalità istituzionali e in assenza di specifica organizzazione riportino modeste eccedenze rispetto ai costi sostenuti per le prestazioni rese a terzi. Secondo l’agenzia delle Entrate (risoluzione 112/2002), ad esempio, i requisiti dell’articolo 143 del Tuir devono essere obbligatoriamente presenti pena la qualificazione commerciale dell’attività ed il conseguente assoggettamento integrale ad imposta.

Per gli enti di carattere associativo, invece, si parla di non commercialità per le entrate derivanti da quote associative nonché per le attività svolte in conformità agli scopi istituzionali nei confronti degli associati o partecipanti, a meno che non siano previsti corrispettivi specifici ( articolo 148 del Tuir ). In quest’ultimo caso emerge un rapporto di scambio che va tassato ordinariamente, anche per evitare alterazioni della concorrenza (circolare 124/1998). Controverso è il caso dell’associazione che offre servizi fruibili da singoli associati dietro pagamento della quota associativa. Secondo l’agenzia delle Entrate si tratta di una prestazione dotata dei caratteri di abitualità e professionalità tali da qualificarla come d’impresa. Non è escluso, infatti, che questo tipo di enti possano svolgere attività d’impresa (che produce reddito tassabile in via ordinaria) ma se prevalente determina la perdita del regime agevolato ( articolo 149 del Tuir ).

Le attività isituzionali svolte dalle Onlus sono invece escluse da tassazione, anche se di natura commerciale, purché abbiamo come obiettivo il perseguimento di finalità di solidarietà sociale ( articolo 150 del Tuir ). Alcune attività hanno i tratti caratteristici della non commercialità (ad esempio assistenza sociale e beneficienza) mentre altre richiedono che i beneficiari siano in condizioni (fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari).

Anche su questi temi non sono pochi i conflitti interpretativi come avvenuto in passato per le case di riposo (risoluzione 189/2000). Sul tema delle attività istituzionali svolte dalle Onlus nonché sulla definizione di ente non commerciale ai fini fiscali, interverrà la riforma del terzo settore disegnata dalla legge delega 106/2016 . Un’occasione importante per introdurre criteri più efficaci e coerenti per la tassazione delle attività commerciali svolte da enti che hanno come scopo principale il perseguimento di finalità di interesse generale.

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