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Split payment dannoso per le imprese e inutile dopo la fattura elettronica

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di Raffaele Rizzardi

In prossimità dell'avvio della fatturazione elettronica obbligatoria era venuta spontanea questa conclusione: se crediamo in questa procedura è ora di porre termine allo split payment e a buona parte dei reverse charge.

Nel forum della fatturazione elettronica del 22 gennaio scorso, Il ministero dell'Economia e delle finanze e l'agenzia delle Entrate hanno potuto confermare l'efficacia di questo strumento (i dati sono relativi a gennaio-novembre 2019 sul 2018): 945 milioni di euro di individuazione e blocco di falsi crediti Iva; 3,6 miliardi di maggiori versamenti.

Lo split payment è una procedura in deroga, che il nostro Paese utilizza su autorizzazione del Consiglio europeo: la prima è stata rilasciata il 14 luglio 2015 (Ue 2015/1401), quella oggi in vigore in data 25 aprile 2017 (Ue 2017/784). Vediamo quali sono le motivazioni di questo provvedimento: «L'Italia non è in grado di portare a termine l'organizzazione e l'attuazione di un'adeguata politica di controllo prima che la decisione di esecuzione (Ue) 2015/1401 del Consiglio cessi di produrre effetti il 31 dicembre 2017».

Nella narrativa della decisione europea di quell'anno si individua ancora il sistema italiano in termini di fatturazione elettronica facoltativa e di spesometro.

La situazione procedurale è decisamente cambiata in meglio con l'introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria, e sarebbe pertanto a dir poco singolare che la nostra amministrazione possa essere indotta a chiedere un'ulteriore proroga dello split payment, in quanto non potrebbe certamente sottacere i risultati positivi dell'attuale procedura, che ci ha posto all'avanguardia rispetto a quanto si fa negli altri Paesi dell'Unione europea.

Lo split payment, al di là delle rilevanti distorsioni che provoca tra le imprese che vi sono obbligate, costituisce una duplicazione di attività per le pubbliche amministrazioni e le imprese destinatarie, in quanto devono corrispondere distintamente il corrispettivo al fornitore e il tributo all’erario. Con la conseguenza che il controllo si sposta da chi ha emesso la fattura a chi l'ha ricevuta.

Dal punto di vista giuridico lo split payment soffre di alcune incertezze: l’amministrazione (circolare 15/E del 13 aprile 2015, confermata dalla circolare 27/E del 27 novembre 2017) ritiene che il fornitore sia “debitore d'imposta”, quando in realtà è “soggetto di imposta”, mentre debitore è il destinatario della fattura. Basti pensare al caso in cui l’ente destinatario non esegua il versamento del tributo: è indubbio che sia precluso all’erario di agire nei confronti del fornitore.

Con la risposta a interpello 436 del 28 ottobre 2019 l’Agenzia ha anche ritenuto irrilevante il disposto dell’articolo 21, comma 7, legge Iva, secondo cui è comunque dovuta l’Iva indicata in fattura. Questa disposizione è derogata, e pertanto se una fattura split viene pagata in misura inferiore il destinatario deve versare all'erario solo l'imposta su quanto effettivamente corrisposto.

La risposta si occupa anche della responsabilità di entrambe le parti del rapporto nel caso di errata indicazione del tributo: chi ha emesso la fattura è debitore in proprio per le differenze, mentre resta la responsabilità del committente o cessionario ex articolo 6, comma 8 del Dlgs 471/97. Ricordiamo al riguardo che per costante giurisprudenza della Cassazione questa responsabilità si riferisce solo a difetti della fattura rilevabili a prima vista, come l'indicazione di una quantità errata per difetto, ma non si estende alla valutazione giuridica degli elementi della fattura, tanto più che il termine per la regolarizzazione è solo di trenta giorni dal ricevimento di questo documento.