Controlli e liti

Vecchio redditometro, difesa più semplice sui disinvestimenti

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di Lorenzo Pegorin e Gian Paolo Ranocchi

Nel redditometro di prima generazione la presunzione dell'esistenza di un maggior reddito è superata quando il contribuente dimostra la mera potenzialità finanziaria di spesa derivante da disinvestimenti o redditi esenti. Non vi è infatti la necessità in capo a quest'ultimo di dover provare ulteriormente come sia stata effettuata la spesa per l'investimento o di come siano stati utilizzati i disinvestimenti. In pratica, quindi, una difesa efficace non richiede affatto la tracciabilità puntuale dei disinvestimenti documentati rispetto agli investimenti, ma la ragionevole riferibilità degli stessi alle operazioni contestate dal Fisco. È questo il principio che si ricava dalla sentenza della Corte di Cassazione numero 3111 depositata il 12 febbraio 2014, secondo cui se il contribuente ha dato conto dei disinvestimenti effettuati o dei redditi esenti realizzati è l'ufficio, semmai, a dover dimostrare che la disponibilità finanziaria non è stata effettivamente utilizzata per l'incremento patrimoniale posto a base della ricostruzione sintetica del reddito. Il principio si applica a maggior ragione, aggiungiamo noi, quando il redditometro si basa sulle spese correnti riferite a beni indice.
L'assunto rappresenta una netta inversione di tendenza rispetto ai principi enunciati dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza numero 6813 del 20 marzo 2009. Quella sentenza, infatti, aveva statuito l'insufficienza della mera dimostrazione della disponibilità dei flussi finanziari derivanti dal disinvestimento/reddito esente, ponendo a carico del contribuente l'onere ulteriore di provare l'esistenza della causalità tra il possesso del disinvestimento/reddito esente e il sostenimento della spesa su cui si fonda l'accertamento da redditometro. Secondo questa impostazione la mancata dimostrazione del nesso eziologico tra spesa e disinvestimento/reddito esente comportava l'impossibilità di superare l'onere della prova.
La sentenza della Suprema corte dell'altro ieri sovverte condivisibilmente e in maniera decisiva la precedente impostazione, chiarendo in modo puntuale quale sia la prova contraria a carico del contribuente e regolando in maniera decisamente più equa l'onere probatorio fra soggetto accertato e ufficio. In questo senso, non va dimenticata la natura presuntiva del redditometro che, specie nella versione ante modifica Dl 78/2010, si avvale di coefficienti che rendono questo strumento equiparabile a un accertamento di tipo standardizzato alla stregua degli studi di settore, con tutte le conseguenze del caso in tema di onere della prova . In questo senso, peraltro, si è espressa più volte sia la giurisprudenza di legittimità (Cassazione 6 febbraio 2013 n. 2806; Cassazione 20 dicembre 2012 n. 23554; Cassazione 29 ottobre 2012 n, 18604).
La sentenza di legittimità in commento si innesta in un solco già tracciato dalla giurisprudenza di merito (in questo senso: Ctp Vicenza n. 115/2012; Ctp Vercelli 32/2011; Ctp Lodi n. 23/2013) secondo cui, se il contribuente dispone di somme finanziarie derivanti da disinvestimenti o di redditi esenti, tali da bilanciare le spese stimate dal redditometro, l'onere di prova contraria è da ritenersi assolto, non avendo rilievo il "come" la somma disinvestita sia stata utilizzata (in questo senso, si veda l'articolo 38 comma 6 Dpr 600/73).
Del resto anche nel "nuovo redditometro", il sistema delineato dal decreto ministeriale 24 dicembre 2012 non prevede affatto che il contribuente debba inferire sul nesso di diretta causalità tra spese di sostenimento/mantenimento di un bene-indice/investimento e reddito sinteticamente accertabile. Gli investimenti sono per definizione valutati al netto dei disinvestimenti effettuati nei quattro anni precedenti, senza che sia richiesta la traccia della somma incassata da porre a confronto con la successiva uscita finanziaria destinata all'incremento patrimoniale.

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