Professione

IL DIBATTITO - Commercialisti, rischio-barriere dalle specializzazioni

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di Redazione Quotidiano del Fisco

Prosegue il confronto sulle specializzazioni dei commercialisti, lanciato sabato 1° giugno dal presidente del Cndcec, Massimo Miani, in un’intervista al Sole 24 Ore. Per inviare commenti si può usare la casella di posta elettronica

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Bisogna valutare il momento

Sono convinta che la specializzazione, intesa come competenza specifica in un determinato ambito, sia da tutti considerata un valore aggiunto così come non vi sono ostacoli di principio sull’idea che vi sia una effettiva esigenza di una maggiore valorizzazione del nostro ruolo nei differenti contesti in cui operiamo. Quello che suscita notevole perplessità è, invece, la volontà di considerare strategica, in questo particolare momento, una riorganizzazione normativa della nostra realtà professionale, attraverso una segmentazione della categoria in classi omogenee e predefinite di competenze, individuate attraverso l’obbligo di predeterminati requisiti.

La proposta sulle specializzazioni, così come strutturata nell’emendamento al Dl Crescita, (considerato, poi, inammissibile) prevede, infatti, la possibilità, per gli iscritti alla Sezione A di conseguire il titolo di specialista (non spendibile altrimenti) laddove esistano determinate condizioni (formazione, esperienza eccetera).

Obiettivo sarebbe, sulla carta, il riconoscimento di chi siamo e il riuscire a portare all’interno della professione i molti elenchi ai quali adesso i colleghi devono essere inseriti per operare in ambiti particolari.

Il tutto, però, senza riserve di legge. Riserve che sarebbero invece estremamente utili a tutela del cittadino.

Dico sulla carta perché in realtà, a mio avviso, il problema non è quello di “codificare” specializzazioni (peraltro già esistenti) ma riuscire a fare in modo che il legislatore, come avviene per altre categorie professionali, ci riconosca nelle norme le nostre competenze, ben definite nell’articolo 1 della nostra legge istitutiva. Competenze che, giova ricordarlo, non ci sono state regalate ma che ci siamo guadagnati a fronte dell’obbligo di una laurea, di un tirocinio, dell’esame di Stato, dell’obbligo formativo, del rispetto di regole deontologiche, della assicurazione obbligatoria, dei vincoli imposti dalla legge in materia di antiriciclaggio e, se dovessi continuare, la lista sarebbe veramente lunga.

In altre parole ritengo che il problema non sia quello di imporre ai colleghi un irrigidimento della propria attività, con le ulteriori barriere che le specializzazioni potrebbero generare, ma sia, invece, il dialogare in modo forse differente con il legislatore. Solo per fare un esempio: la legge di bilancio prevede voucher fino a 40mila euro per quelle piccole e medie imprese che vogliono avvalersi di un consulente per la trasformazione digitale. Fra le attività indicate vi sono, anche, aree di specifica nostra consulenza quali l’applicazione di nuovi metodi di significativa innovazione organizzativa di impresa, nelle strategie di gestione aziendale. Per ottenere il voucher ci si deve avvalere di professionisti presenti in uno specifico albo nel quale, a mio avviso, noi dovremmo poterci iscrivere di diritto. Purtroppo, secondo le anticipazioni che si hanno, noi, invece, nei decreti attuativi non siamo citati. Una dimenticanza? Spero di sì, ma sono certa che, se ci avessero coinvolti, avremmo potuto dare un contributo concreto nell’ ottimizzazione di questa opportunità per le imprese. A mio avviso è poco credibile dire che, inserendo una specializzazione al nostro interno, le cose sarebbero andate in maniera differente.

In conclusione: colleghi specializzati per nuove competenze sì (se lo desiderano), no a commercialisti costretti ad essere imbrigliati in etichette, vincoli e regole per poter svolgere la propria professione nelle aree che il legislatore già riconosce quali nostre “competenze specifiche”. Diciamo le cose come stanno: di obblighi ne abbiamo già anche troppi e aggiungerne altri, a mio parere, non ci condurrebbe proprio da nessuna parte.

Marcella Caradonna - Presidente dell’Ordine di Milano

Conta di più la formazione

Ritengo che la nostra categoria abbia un problema di posizionamento generale e quindi sia di competenze che di struttura. Per le prime, poco appassiona la querelle sulla specializzazione che è solo una spendibile (?) declinazione di queste, la soluzione è paradossalmente banale. È sufficiente la formazione. Alta quanto ciascuno desidera o necessita. Alta quanto ciascuno di noi ritiene di voler o poter spendere sul proprio mercato. Più o meno mirata sulle materie ad esso correlate. Occorre scegliere il proprio posizionamento nel mercato.

Accanto alle competenze tecniche molto possiamo fare sugli aspetti comunicazionali, finora ritenuti inutili ma che viceversa sono essenziali, come per tutti gli operatori economici, per comunicare all’esterno le proprie esperienze o competenze e la propria organizzazione.

Accanto a tutto questo questo vi è un problema di strategia.

Soli per vocazione, siamo e saremo sempre più destinati a lavorare insieme. Nessuno di noi può oggi seriamente pensare di essere in grado di affrontare qualsiasi incarico. Non certo per competenza, bensì per organizzazione. Questo ritengo sia oggi il punto più critico nei confronti di tutti i competitor. Anche qui però ciascuno di noi avrà la sua ricetta. Nessuna soluzione politica, di categoria o meno, ridisegnerà i nostri studi. Magari potrà aiutare, o penalizzare, ma il nostro futuro c’è l’abbiamo in mano solo noi con la capacità o meno di intercettare le necessità, e quindi le utilità percepite, dei nostri clienti.

Luciano Berzé - Ordine di Padova

Ci sono già le lauree magistrali

Il dibattito sulle specializzazioni è aperto, segno di vitalità della nostra professione, che già da tempo ha un approccio dinamico, interdisciplinare e specialistico. Il percorso di specializzazione proposto dal Consiglio nazionale attraverso le Saf non tiene, però conto che già le lauree magistrali in materie economiche-aziendali con il nuovo ordinamento sono già di tipo specialistico, in quanto, dopo la laurea triennale, inizia la laurea specialistica.

Le Saf, così come previste attualmente, non forniscono alcuna abilitazione intesa come atto amministrativo autorizzativo all’esercizio della professione. I corsi Saf non possono, di conseguenza, essere resi obbligatori per i dottori commercialisti, professione che già implica un percorso accademico-universitario estremamente qualificato, riconosciuto legislativamente, cui segue il tirocinio professionale e il superamento di un Esame di Stato, che conferisce l’abilitazione all’esercizio della professione di dottore commercialista.

Marco Orlandi

La Saf non può essere l’unica via

Sono profondamente convinta della necessità di specializzazione, ma ritengo che la proposta del Consiglio nazionale abbia un vulnus fondamentale legato all’adozione della Saf come unica via per l’accesso alla specializzazione. Non conosco, personalmente, corsi di Saf che abbiano suscitato il mio interesse e i pochissimi frequentati si sono rivelati di qualità infima. Le Saf sono uno strumento “amministrato” con tutti i limiti spesso riscontrati nella gestione del potere, ad esempio assoluta assenza di trasparenza nella selezione dei docenti.

Emma Ioppi - Teramo

Opportuno coinvolgere gli atenei

Esprimo la mia contrarietà alle specializzazioni, o meglio alle specializzazioni che ha intenzione di introdurre il nostro Consiglio nazionale attraverso le Saf gestite dai vari ordini locali con un notevole conflitto di interesse in termini di business.

Sarebbe opportuno coinvolgere le università come fanno i medici e poi vincolare i Giudici all’attribuzione degli incarichi. Era opportuno da parte del nostro presidente nazionale esprimersi favorevolmente nell’innalzamento delle soglie per l’obbligo del sindaco/revisore? Poi parliamo di evasione fiscale ma se nessuno controlla? Gli enti tributari non hanno la forza per controllare le aziende. Potevamo svolgere una funzione pubblica ma come al solito c’è la siamo fatta sfuggire.

Luigi Federico Brancia

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